di Alessandro Andriola
Da metodo di combattimento mortale a ginnastica per bambini, dalla filosofia zen alla pratica sportiva.
Tutto ciò che vive è chiamato, su questo pianeta, al confronto con la propria e le altre specie per conquistarsi il diritto ad esistere e perpetuarsi , un confronto che obbliga ad attuare le strategie e gli adeguamenti più opportuni per non perdere la più importante delle sfide, quella per la sopravvivenza.
Praticante entusiasta in gioventù di Karate Shotokan made in JKA, e tutt’ora, malgrado l’età, appassionato e, anche se discontinuo, praticante ad infimi livelli, di Judo, Brazilian Jiu Jitsu, Kick Boxing e Vale tudo, non posso esimermi dallo spendere due parole su una questione che mi sta molto a cuore, nella speranza di stimolare riflessioni, curiosità, innovazione. Vorrei esprimere un punto di vista strettamente personale su un fenomeno che il Karate vive e subisce in questi ultimi anni: lo spopolamento delle palestre. Uno spopolamento, che riguarda i giovani maschi adulti e che fa del Karate una disciplina praticata nella larga maggioranza da donne e bambini: io stesso, con la mia diserzione, ne sono un esempio.
La prendo molto larga, facciamo molti passi indietro. Penso sia utile per capire “cosa” ha determinato “come”. Torniamo alle origini, o meglio a ciò che se ne conosce, perché molto, forse proprio la parte più importante si è persa nel tempo. Ne ripercorro molto velocemente la storia nonostante la mia lacunosa conoscenza scusandomi degli eventuali svarioni.
Il Karate è risaputo, nasce a Okinawa, come metodo di combattimento essenzialmente a mani nude, o con “armi” derivate da attrezzi agricoli ed era in principio ad esclusivo appannaggio della ristretta casta dei nobili. Sotto la dominazione giapponese diventa di vitale importanza. Erano tempi in cui i Samurai, soldati professionisti, unici ad essere armati fino a i denti ed esperti nel combattimento, uccidevano anche solo per uno sguardo o, come era uso, per dare una “anima” alla propria Katana oltre a dedicarsi a scapito dei locali al Tameshigiri, divertendosi ad affettarli vivi. Fortemente influenzato dai vari pugilati cinesi, si praticava vestiti come si poteva, di nascosto, in casa e la pratica era essenzialmente solitaria, una sorta di kata.
L’arte veniva tramandata in segretezza da Maestro ad allievo senza una espressa stesura scientifica, era una cosa molto personale. Ma la materia era viva, provata sul campo e sempre pronta ad essere aggiornata.
Questa “arte segreta” si traduceva in una totale padronanza delle tecniche di percussione e pressione unita ad una profonda conoscenza dei punti vitali, mortali o invalidanti del corpo umano e alla trasformazione mediante l’allenamento e il condizionamento del proprio corpo in una arma. E’ il Karate che nell’immobilismo di quel lungo periodo storico arriva al XIX secolo, quello di Itosu, Asato, Matsumura, Higaonna, dei padri fondatori e codificatori, permeato della filosofia e del BuddismoZen.
Immagino quel Karate molto diverso da quello che si pratica ora. Vedo quegli omini indurire le proprie mani come sassi, irrobustire i loro corpi usando il vento, il mare, la sabbia, gli alberi, allenarsi duramente tutti i giorni, cercare e sperimentare su sé stessi i punti di pressione, provare le sequenze di colpi ai punti vitali come si recitano le preghiere del rosario. E credo inoltre fortemente che l’idea del colpo unico e risolutore sia nata allora, come esigenza assoluta, come unica possibilità di sopravvivere ad un avversario armato ed addestrato.
Arriviamo al Karate del ‘900, quello apprezzato da Kano, quello di kihon, kata e kumite e del controllo dei colpi. Viene giapponesizzato, si adotta la tenuta del Judo e la sua progressione delle cinture, Funakoshi lo pubblicizza e con l’aiuto di Kano lo divulga. Da tempo viene insegnato nelle scuole di Okinawa. Ha perso la connotazione letale nei fatti, ma non nello spirito, quello è ancora “vincere o morire”. Ogni stile viene codificato e documentato. I pugni i calci, le posizioni, vengono racchiuse in sequenze scolastiche, e oso ipotizzare che forse già allora perdono l’aggancio alla fluida realtà.
Nella maggior parte degli stili è proibito il pieno contatto e laddove è permesso non lo è mai al viso. Il Karate è statico, geometrico, ma ha ancora posizioni piccole, si sta alti in guardia e si dà molta enfasi all’affilamento delle “armi”, makiwara compreso e alla preparazione fisica (lo stesso piccolo Funakoshi, famoso per il suo “pugno demonio”, si era costruito un discreto fisico!), alla sostanza seppur con qualche concessione all’estetica.
Nel dopoguerra arriva in America ed in Europa ed è boom. Gli allenamenti sono duri, con essi si mira a forgiare il corpo e la mente. D’altra parte duri sono ancora i tempi in cui si vive. Ma il Karate è già sport. Le posizioni si abbassano, diventa più faticoso (e forgiante) il mantenerle ma più difficile muoversi con velocità. I movimenti si ampliano, cedono ulteriormente all’esigenza estetica. Si allarga sempre più la platea a cui si rivolge: donne, bambini. Si fanno gare di kumite e di kata. E’ un po’ il Karate degli anni ’70 che ho vissuto con passione con Giovanna Citrelli e Sergio Roedner.
Ma mano a mano che il Karate si espande, che cresce il numero dei maestri e degli allievi, comincia a sentirsi l’esigenza di una prova del 9, prova di cui fino ad allora grazie alla bravura ed il carisma dei maestri giapponesi non se ne era sentito il bisogno. Da parte di alcuni cultori, soprattutto in America, si chiede un sistema più realistico, meno rigido e scolastico, più aderente alla realtà: si sente forte il bisogno del contatto. Nasce il Karate – contact che nelle sue varie forme prenderà poi una sua strada autonoma: torneremo più tardi su di esso.
Federazioni, bagarre di stili, bagarre di federazioni, nuovi stili, Kata che cambiano, Kata che si inventano di sana pianta. Il panorama si fa sempre più variopinto e variegato. Col tempo si perde definitivamente il filo che lega alle origini. La modernità fa dei gesti arcaici vuoti involucri. Il Karate diventa di massa come la società che lo accoglie. I corsi sono ormai tanti quanti quelli di ballo. E’ un articolo di consumo. E’ business. Il livello tecnico si abbassa, lo spirito guerriero è scomparso, non serve neanche più una preparazione fisica, si assiste ad una pantomima, ad una spesso brutta ginnastica per bambini (“vuoi fare basket o karate?”), ad una esibizione di gesti coreografici più o meno belli, ad una scherma svolazzante poco verosimile: il Karate sportivo di oggi. Di fronte ad una simile involuzione molti sono i tentativi di ripristino del rigore e della tradizione, tanti da ufficializzare il distinguo fra Karate Sportivo e Karate Tradizionale. Ma anche in questo caso il divario con l’efficacia delle forme di contact rimane ampio ed è facile cadere nella trappola di un conservatorismo che ahimè non può far altro che diventare anacronistico. Dare una occhiata a quello che è successo negli ultimi 50 anni intorno al Karate ci può aiutare a capire.
Negli anni ’70, in Italia, la scelta nel panorama marziale era molto limitata, in pratica si fermava al Judo o al Karate. La Boxe, anche se “nobile arte”, era considerato sport borderline per emarginati e poco di buono. Negli Stati Uniti in quegli anni nascevano varie forme di Karate contact, il principe ne fu il Full Contact Karate che sul campo, facendo di necessità virtù, sviluppò una propria identità lontana dal Karate classico, adottando la guardia e le percussioni tipiche della boxe, che si rivelò primeggiare nei colpi di pugno.
In Europa, soprattutto in Francia e Olanda, grazie al rapporto centenario con le proprie colonie, sulla scia dei già affermati “sport giapponesi”e del Full Contact Karate di Falsoni e Valera fanno poco più tardi capolino altri stili di combattimento, provenienti da paesi dell’estremo oriente, come il pugilato thailandese, quello birmano, filippino, vietnamita.
Tra tutti, nelle competizioni interstile è la Mae Muay Thai che la fa da padrona. Trasformatasi da arte marziale in sport nazionale (la si inizia giovanissimi per allenarsi svariate ore al giorno, 5/6 volte a settimana) mostra sul campo la propria superiorità: sbarca in Occidente e allarga a macchia d’olio la propria popolarità e il proprio seguito.
I giapponesi, dal canto loro, già dagli anni ’60 avevano elaborato una Kickboxing nipponica. Stanchi di uscire con le ossa rotte dai confronti con i professionisti Thai, ne adottarono alcune tecniche (vedi low kick. Anche il Kyokushin di Mas Oyama ha un mawashi geri gedan che gli somiglia molto), tralasciando quelle più tradizionalmente siamesi e devastanti come il clinch, le gomitate e le ginocchiate. Da questa si arriverà all’odierno K-1.
I cinesi elaborarono il San Da Sanshou una sorta di Kickboxing con proiezioni, cosa che non impedì ai loro campioni di Kung fu di trascorrere qualche tempo in ospedale dopi gli incontri con i Thai.
Oggi tra quei pochi giovani, figli di questi tempi, che hanno voglia di fare e faticare nelle discipline diciamo “di percussione”, la stragrande maggioranza, magari dopo un certo trascorso nel Karate, va a ingrossare le file dei savateur, dei pugili, ma più ancora dei kick o dei thai boxers.
Cosa hanno di più attraente questi sport rispetto al vecchio e sano Karate? Non si tratta pur sempre di calci e pugni? In alcune palestre tradizionali poi gli allenamenti sono duri, sfidanti, non cosa da mammolette. E dunque? Cos’è che fa la differenza?
La risposta, sulla scorta di quanto fin qui esposto, contempla un insieme di fattori che in sintesi portano, secondo me, ad una sola parola: realismo.
E’ la realtà delle competizioni interstile a pieno contatto che ha portato sotto gli occhi di tutti l’evidenza delle cose. Poter salire sul ring o sul tatami con un pugile, un savateur o un thai boxer agonista , in un incontro a pieno contatto e rimanere in piedi per un paio di round per un karateka agonista di oggi è cosa difficile a immaginarsi. Avere la tenuta atletica, l’attitudine a colpire ad oltranza senza stop arbitrali, la capacità di assorbire lo shock fisico ed emotivo dei colpi, mantenere una guardia valida per il viso (perché i colpi arrivano e fanno male!), saper schivare ed eludere gli attacchi avversari, o ancora colpire con le ginocchia, i gomiti, calciare alle gambe, sono tutte cose che NON fanno parte del bagaglio di un karateka sportivo.
Il Karate e le arti marziali tradizionali (e quindi anche il Kung fu, il Tae Kwon Do, ecc…) pagano lo scotto di una esagerata schematizzazione, di una lontananza sempre più marcata tra il gesto ed il suo perché, che le ha trasformate in una sorta di scherma, di esercizio di stile. Il Karate ed il Judo, in particolare, pagano anche quello di una eccessiva sportivizzazione, con la conseguente standardizzazione delle tecniche volte all’esclusiva ricerca del punto. Nessuna mamma chiederà mai al proprio bambino: ”vuoi fare pallavolo o boxe thailandese?”
E’ ovvio che non si può pensare di trasformare il Karate in una kick boxing col gi, ma lo si può certamente rendere più concreto e realistico introducendo delle metodologie di allenamento mutuate dalle discipline da ring. Usare i colpitori ad esempio. Ne esistono di vari tipi per i pugni e per i calci (scudi, pao, zampe d’orso). Ci sono cinture imbottite per attutire i colpi all’addome, il sacco. Mettiamo alla prova le nostre tecniche, impariamo a colpire veramente con i nostri calci e i nostri pugni. Non è necessario sfigurarsi la faccia o rintronarsi il cervello in incontri a pieno contatto per assaporare l’effetto di un colpo portato a fondo. In movimento, colpi singoli o in combinazione, da soli o a coppie: è un training di prassi negli sport da ring. E poi … i gomiti e le ginocchia li hanno solo i thailandesi? Usiamoli! E i calci alle gambe? I celeberrimi low kick? Con le protezioni si possono fare. Anche nel Tae kwon do li usano, così come nel Kyokushin ed è la specialità della Savate che ne ha di svariati tipi. Vogliamo inoltre mettere la soddisfazione di colpire a pieno contatto un bersaglio con un pugno o un calcio? Vederne con i propri occhi l’efficacia (o meno)?
E seppur vero che con una decisa opera di modernizzazione potrebbe sicuramente riacquistare l’interesse perduto, non è propriamente su questo terreno che il Karate può risorgere e ritrovare la propria identità. E’ soltanto riesumando le tecniche enumerate ma poi perse nel tempo e legandole, con laboriosa ricerca e paziente studio, all’applicazione sui punti vitali che il Karate può tornare ad essere l’arte marziale per eccellenza. Un Karate non sportivo, non saltellato, non sbracciato, piccolo ma comunque dinamico, nelle posizioni, nei movimenti, nei colpi, dove la punta delle dita, le falangi , i gomiti e le ginocchia abbiano un ruolo più importante del seiken, un Karate che non sia ingessato in kisamizuki-giakuzuki, che va solo per linee rette, un Karate che stia sul serio tra la vita e la morte, che sia traguardo per tutti i praticanti e non punto di partenza, disciplina di combattimento per adulti consapevoli e non ginnastica per bambini.