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22 febbraio 2011 2 22 /02 /febbraio /2011 12:15

Dan Reilly (Budo International) intervista Sergio Roedner

 

(traduzione dall’inglese di S.R.)

 

D: Signor Roedner, il Suo canale su Youtube dedicato allo Shotokan è in breve tempo diventato uno dei più visitati sul web. Come le è venuta questa idea e come spiega il suo successo in un momento in cui il karate sembra francamente fuori moda?

 

R: Negli anni 80 dirigevo una piccola rivista di karate, “Yoi”, che cercava di sopperire con la qualità degli articoli alla scarsità di mezzi finanziari. Con l’avvento di Internet, la comunicazione è diventata più democratica ed economica, e ho pensato di proseguire la mia opera di divulgazione con mezzi più moderni. Il merito del successo va alla qualità dei filmati e alla generosità degli amici che me ne hanno concesso la disponibilità, tra i quali devo citare i maestri Perlati, Zoja e Fugazza. I filmati piacciono perché gli intenditori sono molti, e sparsi in tutto il mondo. Non occorre essere un arbitro o un quinto dan per riconoscere l’eccellenza di un kata di Marchini, di un kime-waza del M° Shirai o di un kumite tra Capuana e Yahara.

 

D: Il Suo canale è chiaramente sbilanciato in favore del karate tradizionale e schierato contro la sua versione sportiva, come dimostra tra l’altro il referendum un po’ provocatorio proposto tra i kata di Fugazza e Maurino, o di Marchini e Valdesi. Non le sembra che anche il karate, come ogni altra disciplina marziale e sportiva, abbia il diritto e il dovere di evolversi? Non siamo più a Okinawa o ai filmini in bianco e nero di Nakayama, non le pare?

 

R: Non parlerei di karate tradizionale (che se esiste ancora si pratica forse in qualche dojo di Okinawa lontano dal turismo marziale) ma di karate vero, contrapposto a qualcosa che ne usurpa il nome, ne imita la gestualità ma ne ignora i principi fondamentali e l’efficacia. Anche il karate di Nakayama era karate sportivo, nel senso che l’aspetto atletico e l’agonismo ne erano parte integrante, ma se si confrontano i combattimenti per il titolo Jka degli anni 80 con quelli contemporanei della Wuko si capisce quello che intendo dire. E quello che dico per il kumite vale anche per il kata: se bastano velocità, agilità, teatralità e acrobazia, allora il campione mondiale è solo un grande ginnasta.

 

D: Dopo la morte di Nakayama, lo Shotokan si è frantumato a livello mondiale e anche europeo. Qual è la situazione nel Suo paese?

 

R: Anche l’Italia ha conosciuto varie scissioni ma il gruppo più consistente, per quanto riguarda lo Shotokan, è rimasto quello creato nel 1965 dal Maestro Hiroshi Shirai. Questo gruppo è passato attraverso varie esperienze, tra le quali un decennio di coabitazione con l’organizzazione affiliata alla UEK e riconosciuta dal CONI, per poi tornare a formare un gruppo autonomo nel 1990. Più recentemente c’è stata la rottura con il Maestro Naito, rappresentante italiano della Jka, che è uscito dalla Federazione con circa 40 palestre e 4000 tesserati, più o meno il 10 % del totale. Personalmente penso che queste separazioni nuocciano a tutti, perché si perdono di vista amici di vecchia data e si perde l’occasione del confronto con interpretazioni diverse della stessa disciplina. Per una questione di gusti personali, preferisco il kumite e in generale il sistema di gara  Jka a quello Itkf adottato dalla mia federazione, ma l’agonismo non è importante nella mia visione del karate e resto legato alle scelte del mio maestro, Carlo Fugazza.

 

D: Signor Roedner, perché consiglierebbe a qualcuno la pratica del karate al giorno d’oggi?

 

Per gli stessi motivi per cui ho cominciato a praticarlo io 40 anni fa: prima di tutto per difesa personale, con la sorpresa di trovare poi una disciplina  formativa che può dare dei punti di riferimento nella vita e contribuire a plasmare il proprio carattere. Oggi più di allora, però, è importante trovare la palestra giusta, con l’insegnante che creda ancora nei valori marziali dell’arte che insegna. Un dojo senza makiwara e pieno di cinture bicolori è già un cattivo segno…

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21 febbraio 2011 1 21 /02 /febbraio /2011 12:53

Due ore di karate alla settimana? Pochissimo, ma molto meglio di niente. Se però quelle due ore vengono "erose" da un quarto d'ora di "riscaldamento", diventano quasi niente. Poco importa in questa sede se si tratti di un "tai-so" tradizionale (in realtà ginnastica scolastica stile anni 60), di corsa e stretching all'occidentale, o di esotici ed esoterici esercizi presi in prestito dal tai-chi: non esiste nessun riscaldamento che corrisponda alle esigenze di un pubblico così differenziato come i praticanti di karate di oggi, dai 6 ai 70 anni di età, in tutte le stagioni e condizione fisiche.

E allora la cosa più sensata è che ciascuno arrivi in palestra in tempo utile per provvedere autonomamente al proprio riscaldamento, secondo le proprie esigenze e gusti. E che dopo il saluto il maestro ci impartisca quella lezione di karate nella quale c'è sempre così poco tempo per allenare tutti gli aspetti di quell'arte marziale che è la sola cosa che in quel contesto ci interessi veramente.

Grazie, maestro Carlo Fugazza, che da sempre hai scelto questa soluzione e ci insegni il karate prima ancora con l'esempio che con l'osservazione e la correzione puntuale dei nostri errori.

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21 febbraio 2011 1 21 /02 /febbraio /2011 11:41

Si aiuta col braccio nell'azione da gol, nega di averlo fatto e poi segnala all'arbitro, per l'espulsione, un avversario "reo" della stessa infrazione.

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20 febbraio 2011 7 20 /02 /febbraio /2011 22:44

di Alessandro Andriola

 

Da metodo di combattimento mortale a ginnastica per bambini, dalla filosofia zen alla pratica sportiva.

 

Tutto ciò che vive è chiamato, su questo pianeta, al confronto con la propria e le altre specie per conquistarsi il diritto ad esistere e perpetuarsi , un confronto che obbliga ad attuare le strategie e gli adeguamenti più opportuni per non perdere la più importante delle sfide, quella per la sopravvivenza.

 

Praticante entusiasta in gioventù di Karate Shotokan made in JKA, e tutt’ora, malgrado l’età, appassionato e, anche se discontinuo, praticante ad infimi livelli, di Judo, Brazilian Jiu Jitsu, Kick Boxing e Vale tudo, non posso esimermi dallo spendere due parole su una questione che mi sta molto a cuore, nella speranza di stimolare riflessioni, curiosità, innovazione. Vorrei esprimere un punto di vista strettamente personale su un fenomeno che il Karate vive e subisce in questi ultimi anni: lo spopolamento delle palestre. Uno spopolamento, che riguarda i giovani maschi adulti e che fa del Karate una disciplina praticata nella larga maggioranza da donne e bambini: io stesso, con la mia diserzione, ne sono un esempio.

La prendo molto larga, facciamo molti passi indietro. Penso sia utile per capire “cosa” ha determinato “come”. Torniamo alle origini, o meglio a ciò che se ne conosce, perché molto, forse proprio la parte più importante si è persa nel tempo. Ne ripercorro molto velocemente la storia nonostante la mia lacunosa conoscenza scusandomi degli eventuali svarioni.

Il Karate è risaputo, nasce a Okinawa, come metodo di combattimento essenzialmente a mani nude, o con “armi” derivate da attrezzi agricoli ed era in principio ad esclusivo appannaggio della ristretta casta dei nobili. Sotto la dominazione giapponese diventa di vitale importanza. Erano tempi in cui i Samurai, soldati professionisti, unici ad essere armati fino a i denti ed esperti nel combattimento, uccidevano anche solo per uno sguardo o, come era uso, per dare una “anima” alla propria Katana oltre a dedicarsi a scapito dei locali al Tameshigiri, divertendosi ad affettarli vivi. Fortemente influenzato dai vari pugilati cinesi, si praticava vestiti come si poteva, di nascosto, in casa e la pratica era essenzialmente solitaria, una sorta di kata.

L’arte veniva tramandata in segretezza da Maestro ad allievo senza una espressa stesura scientifica, era una cosa molto personale. Ma la materia era viva, provata sul campo e sempre pronta ad essere aggiornata.

Questa “arte segreta” si traduceva in una totale padronanza delle tecniche di percussione e pressione unita ad una profonda conoscenza dei punti vitali, mortali o invalidanti del corpo umano e alla trasformazione mediante l’allenamento e il condizionamento del proprio corpo in una arma. E’ il Karate che nell’immobilismo di quel lungo periodo storico arriva al XIX secolo, quello di Itosu, Asato, Matsumura, Higaonna, dei padri fondatori e codificatori, permeato della filosofia e del BuddismoZen.

Immagino quel Karate molto diverso da quello che si pratica ora. Vedo quegli omini indurire le proprie mani come sassi, irrobustire i loro corpi usando il vento, il mare, la sabbia, gli alberi, allenarsi duramente tutti i giorni, cercare e sperimentare su sé stessi i punti di pressione, provare le sequenze di colpi ai punti vitali come si recitano le preghiere del rosario. E credo inoltre fortemente che l’idea del colpo unico e risolutore sia nata allora, come esigenza assoluta, come unica possibilità di sopravvivere ad un avversario armato ed addestrato.

Arriviamo al Karate del ‘900, quello apprezzato da Kano, quello di kihon, kata e kumite e del controllo dei colpi. Viene giapponesizzato, si adotta la tenuta del Judo e la sua progressione delle cinture, Funakoshi lo pubblicizza e con l’aiuto di Kano lo divulga. Da tempo viene insegnato nelle scuole di Okinawa. Ha perso la connotazione letale nei fatti, ma non nello spirito, quello è ancora “vincere o morire”. Ogni stile viene codificato e documentato. I pugni i calci, le posizioni, vengono racchiuse in sequenze scolastiche, e oso ipotizzare che forse già allora perdono l’aggancio alla fluida realtà.

Nella maggior parte degli stili è proibito il pieno contatto e laddove è permesso non lo è mai al viso. Il Karate è statico, geometrico, ma ha ancora posizioni piccole, si sta alti in guardia e si dà molta enfasi all’affilamento delle “armi”, makiwara compreso e alla preparazione fisica (lo stesso piccolo Funakoshi, famoso per il suo “pugno demonio”, si era costruito un discreto fisico!), alla sostanza seppur con qualche concessione all’estetica.

Nel dopoguerra arriva in America ed in Europa ed è boom. Gli allenamenti sono duri, con essi si mira a forgiare il corpo e la mente. D’altra parte duri sono ancora i tempi in cui si vive. Ma il Karate è già sport. Le posizioni si abbassano, diventa più faticoso (e forgiante) il mantenerle ma più difficile muoversi con velocità. I movimenti si ampliano, cedono ulteriormente all’esigenza estetica. Si allarga sempre più la platea a cui si rivolge: donne, bambini. Si fanno gare di kumite e di kata. E’ un po’ il Karate degli anni ’70 che ho vissuto con passione con Giovanna Citrelli e Sergio Roedner.

Ma mano a mano che il Karate si espande, che cresce il numero dei maestri e degli allievi, comincia a sentirsi l’esigenza di una prova del 9, prova di cui fino ad allora grazie alla bravura ed il carisma dei maestri giapponesi non se ne era sentito il bisogno. Da parte di alcuni cultori, soprattutto in America, si chiede un sistema più realistico, meno rigido e scolastico, più aderente alla realtà: si sente forte il bisogno del contatto. Nasce il Karate – contact che nelle sue varie forme prenderà poi una sua strada autonoma: torneremo più tardi su di esso.

Federazioni, bagarre di stili, bagarre di federazioni, nuovi stili, Kata che cambiano, Kata che si inventano di sana pianta. Il panorama si fa sempre più variopinto e variegato. Col tempo si perde definitivamente il filo che lega alle origini. La modernità fa dei gesti arcaici vuoti involucri. Il Karate diventa di massa come la società che lo accoglie. I corsi sono ormai tanti quanti quelli di ballo. E’ un articolo di consumo. E’ business. Il livello tecnico si abbassa, lo spirito guerriero è scomparso, non serve neanche più una preparazione fisica, si assiste ad una pantomima, ad una spesso brutta ginnastica per bambini (“vuoi fare basket o karate?”), ad una esibizione di gesti coreografici più o meno belli, ad una scherma svolazzante poco verosimile: il Karate sportivo di oggi. Di fronte ad una simile involuzione molti sono i tentativi di ripristino del rigore e della tradizione, tanti da ufficializzare il distinguo fra Karate Sportivo e Karate Tradizionale. Ma anche in questo caso il divario con l’efficacia delle forme di contact rimane ampio ed è facile cadere nella trappola di un conservatorismo che ahimè non può far altro che diventare anacronistico. Dare una occhiata a quello che è successo negli ultimi 50 anni intorno al Karate ci può aiutare a capire.

Negli anni ’70, in Italia, la scelta nel panorama marziale era molto limitata, in pratica si fermava al Judo o al Karate. La Boxe, anche se “nobile arte”, era considerato sport borderline per emarginati e poco di buono. Negli Stati Uniti in quegli anni nascevano varie forme di Karate contact, il principe ne fu il Full Contact Karate che sul campo, facendo di necessità virtù, sviluppò una propria identità lontana dal Karate classico, adottando la guardia e le percussioni tipiche della boxe, che si rivelò primeggiare nei colpi di pugno.

In Europa, soprattutto in Francia e Olanda, grazie al rapporto centenario con le proprie colonie, sulla scia dei già affermati “sport giapponesi”e del Full Contact Karate di Falsoni e Valera fanno poco più tardi capolino altri stili di combattimento, provenienti da paesi dell’estremo oriente, come il pugilato thailandese, quello birmano, filippino, vietnamita.

Tra tutti, nelle competizioni interstile è la Mae Muay Thai che la fa da padrona. Trasformatasi da arte marziale in sport nazionale (la si inizia giovanissimi per allenarsi svariate ore al giorno, 5/6 volte a settimana) mostra sul campo la propria superiorità: sbarca in Occidente e allarga a macchia d’olio la propria popolarità e il proprio seguito.

I giapponesi, dal canto loro, già dagli anni ’60 avevano elaborato una Kickboxing nipponica. Stanchi di uscire con le ossa rotte dai confronti con i professionisti Thai, ne adottarono alcune tecniche (vedi low kick. Anche il Kyokushin di Mas Oyama ha un mawashi geri gedan che gli somiglia molto), tralasciando quelle più tradizionalmente siamesi e devastanti come il clinch, le gomitate e le ginocchiate. Da questa si arriverà all’odierno K-1.

I cinesi elaborarono il San Da Sanshou una sorta di Kickboxing con proiezioni, cosa che non impedì ai loro campioni di Kung fu di trascorrere qualche tempo in ospedale dopi gli incontri con i Thai.

Oggi tra quei pochi giovani, figli di questi tempi, che hanno voglia di fare e faticare nelle discipline diciamo “di percussione”, la stragrande maggioranza, magari dopo un certo trascorso nel Karate, va a ingrossare le file dei savateur, dei pugili, ma più ancora dei kick o dei thai boxers.

Cosa hanno di più attraente questi sport rispetto al vecchio e sano Karate? Non si tratta pur sempre di calci e pugni? In alcune palestre tradizionali poi gli allenamenti sono duri, sfidanti, non cosa da mammolette. E dunque? Cos’è che fa la differenza?

La risposta, sulla scorta di quanto fin qui esposto, contempla un insieme di fattori che in sintesi portano, secondo me, ad una sola parola: realismo.

E’ la realtà delle competizioni interstile a pieno contatto che ha portato sotto gli occhi di tutti l’evidenza delle cose. Poter salire sul ring o sul tatami con un pugile, un savateur o un thai boxer agonista , in un incontro a pieno contatto e rimanere in piedi per un paio di round per un karateka agonista di oggi è cosa difficile a immaginarsi. Avere la tenuta atletica, l’attitudine a colpire ad oltranza senza stop arbitrali, la capacità di assorbire lo shock fisico ed emotivo dei colpi, mantenere una guardia valida per il viso (perché i colpi arrivano e fanno male!), saper schivare ed eludere gli attacchi avversari, o ancora colpire con le ginocchia, i gomiti, calciare alle gambe, sono tutte cose che NON fanno parte del bagaglio di un karateka sportivo.

Il Karate e le arti marziali tradizionali (e quindi anche il Kung fu, il Tae Kwon Do, ecc…) pagano lo scotto di una esagerata schematizzazione, di una lontananza sempre più marcata tra il gesto ed il suo perché, che le ha trasformate in una sorta di scherma, di esercizio di stile. Il Karate ed il Judo, in particolare, pagano anche quello di una eccessiva sportivizzazione, con la conseguente standardizzazione delle tecniche volte all’esclusiva ricerca del punto. Nessuna mamma chiederà mai al proprio bambino: ”vuoi fare pallavolo o boxe thailandese?”

E’ ovvio che non si può pensare di trasformare il Karate in una kick boxing col gi, ma lo si può certamente rendere più concreto e realistico introducendo delle metodologie di allenamento mutuate dalle discipline da ring. Usare i colpitori ad esempio. Ne esistono di vari tipi per i pugni e per i calci (scudi, pao, zampe d’orso). Ci sono cinture imbottite per attutire i colpi all’addome, il sacco. Mettiamo alla prova le nostre tecniche, impariamo a colpire veramente con i nostri calci e i nostri pugni. Non è necessario sfigurarsi la faccia o rintronarsi il cervello in incontri a pieno contatto per assaporare l’effetto di un colpo portato a fondo. In movimento, colpi singoli o in combinazione, da soli o a coppie: è un training di prassi negli sport da ring. E poi … i gomiti e le ginocchia li hanno solo i thailandesi? Usiamoli! E i calci alle gambe? I celeberrimi low kick? Con le protezioni si possono fare. Anche nel Tae kwon do li usano, così come nel Kyokushin ed è la specialità della Savate che ne ha di svariati tipi. Vogliamo inoltre mettere la soddisfazione di colpire a pieno contatto un bersaglio con un pugno o un calcio? Vederne con i propri occhi l’efficacia (o meno)?

E seppur vero che con una decisa opera di modernizzazione potrebbe sicuramente riacquistare l’interesse perduto, non è propriamente su questo terreno che il Karate può risorgere e ritrovare la propria identità. E’ soltanto riesumando le tecniche enumerate ma poi perse nel tempo e legandole, con laboriosa ricerca e paziente studio, all’applicazione sui punti vitali che il Karate può tornare ad essere l’arte marziale per eccellenza. Un Karate non sportivo, non saltellato, non sbracciato, piccolo ma comunque dinamico, nelle posizioni, nei movimenti, nei colpi, dove la punta delle dita, le falangi , i gomiti e le ginocchia abbiano un ruolo più importante del seiken, un Karate che non sia ingessato in kisamizuki-giakuzuki, che va solo per linee rette, un Karate che stia sul serio tra la vita e la morte, che sia traguardo per tutti i praticanti e non punto di partenza, disciplina di combattimento per adulti consapevoli e non ginnastica per bambini.

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20 febbraio 2011 7 20 /02 /febbraio /2011 18:45

“A parte il declino del livello della tecnica in questi tempi, mi sono reso pienamente conto del quasi irriconoscibile stato spirituale a cui è arrivato il mondo del karate”. Queste parole del Mº Funakoshi sono del 1956 (!), ma si adattano anche troppo bene alla situazione di cinquant'anni dopo. In Italia la crisi è evidente: la fusione tra le due più importanti federazioni è fallita e il nostro mondo si è frantumato in una galassia di gruppi e gruppuscoli la cui elencazione completa sarebbe di competenza delle “pagine gialle”. Nella pratica si scontrano, ormai da un trentennio, due concezioni diverse della stessa arte. Mentre uno dei due gruppi (la ex-Fik, per intenderci) non ha mai avuto “maestri” ma solo istruttori e traguardi agonistici, l'altro gruppo resiste arroccato intorno al proprio maestro ma dimostra limitate capacità, o forse volontà, di proselitismo e ulteriore espansione. Il karate in generale è “passato di moda” e soprattutto i giovani si dedicano alla kick boxing o ad altre variazioni sul tema, in organizzazioni che promettono l'efficacia immediata e attribuiscono ai propri insegnanti titoli e gradi che da noi si guadagnano col sudore e la fatica.

Alla base di questa crisi organizzativa c'è una crisi ideale, che ha probabili origini lontane nel tentativo di trasformare il karate in una pratica sportiva. Se quel che conta è il risultato agonistico, occorre sacrificare quella parte dell'insegnamento antico che non permette di cogliere immediati frutti nelle gare. La tecnica si standardizza, si semplifica, si inaridisce. Due o tre principi, applicati bene o male, diventano l'unico oggetto dell'insegnamento. È bene dire chiaramente che tutte queste magagne vengono dall'ex-FIK. Anche la JKA di Nakayama (in aperto contrasto con le vedute dell'ottantenne Funakoshi) ha seguito la stessa via, con più rigore, più precisione tecnica, più coerente ricerca della potenza e della maturazione umana del karateka: ma era pur sempre la strada che portava all' ippon folgorante di Oishi nel kumite o al kata impeccabile di Osaka. La JKA ha portato alla perfezione, alla stilizzazione assoluta il karate sportivo, cercando di non dimenticare, di conservare al tempo stesso (nei suoi migliori istruttori) l' altro del karate, la sua portata originaria. Non è un caso se il tentativo di un ritorno alle origini dell'arte, alla sua efficacia, si deve a maestri che all'interno della JKA si sono mossi con indipendenza e spirito critico (come il Maestro Nishiyama) o che ne sono usciti (come il Maestro Shirai o il Maestro Tokitsu).

Dopo 34 anni di pratica e 30 di insegnamento, tutti all'interno del “karate tradizionale”, mi è sembrato doveroso interrogarmi sul significato di questa pratica e condividere interrogativi e possibili risposte con i lettori di www.artimarziali.org.

PRIMA DEL KARATE SPORTIVO: IL KARATE DI FUNAKOSHI.

Negli anni della maturità, Funakoshi raccolse e in parte creò una base etico-filosofica per il karate, trasformandolo in Do sull'esempio del Jiu-jitsu , del Ken-jitsu , ecc. Il karate per Funakoshi, insegnante, poeta e studioso della filosofia giapponese e cinese, era una ginnastica fisica e spirituale, uno strumento educativo, un mezzo per migliorare il proprio carattere; il Maestro intendeva metterlo sullo stesso livello delle altre arti marziali “nel promuovere i tratti del coraggio, della cortesia, dell'integrità, dell'umiltà e dell'autocontrollo”. Una mediazione quindi tra lo spirito dei Samurai e le moderne esigenze della società giapponese, nella quale la morale del “vincere o morire” riaffiorò per l'ultima volta tra i kamikaze, alla fine della seconda guerra mondiale. Il karateka ideale immaginato da Funakoshi non era più forse il giovane Gichin stesso in lotta col tifone, intento ad allenarsi di notte ore e ore in silenzio allo scopo di imparare tecniche da applicare per la sopravvivenza: ma piuttosto uno spirito nobile e generoso che applicava gli insegnamenti del Budo nella vita di tutti i giorni. C'è altro nel karate?

PRIMA DI FUNAKOSHI: IL KARATE DI OKINAWA.

Per i maestri di Funakoshi (Asato, Itosu, Matsumura) il karate era prima di tutto un sistema di difesa a mani nude contro ogni tipo di arma: da qui la ricerca della durezza delle armi naturali (mani e piedi) e lo sforzo per trasformare il corpo intero in una corazza con l'uso della contrazione muscolare; di qui lo studio dei punti vitali ( Kyusho ) e il lavoro al makiwara . Sempre duro e sempre forte ( Shorei ), oppure leggero, ampio e veloce ( Shorin ); anche se studi recenti sembrano indicare che la contrapposizione dei due stili sia una forzatura o una semplificazione didattica dello stesso Funakoshi.

L'espressione più efficace del karate-difesa ( jitsu ) è stata forse il kyokushinkai di Oyama, dove l'elemento agonistico è assolutamente secondario e molto meno enfatizzato dello studio della forza fisica e mentale. Le performances sbalorditive di certi allievi di Oyama, non tutte attribuibili ai loro muscoli e alla durezza dei loro calli, testimoniano che il karate-jitsu è una strada migliore del karate sportivo per chi mira all'allargamento delle proprie facoltà psico-fisiche.

NEL KIME LA CHIAVE DEL MISTERO.

Cos'è il ki ? È l'energia vitale, scoperta dai cinesi che la chiamano chi . Fluisce dal tanden (centro vitale situato in profondità in corrispondenza dell'ombelico) attraverso le membra; può essere concentrato in una parte del corpo, può essere disperso (malattia, morte), può essere usato contro l'avversario. Tutti ne posseggono, pochi sanno usarlo e spremerlo . Kime : concentrazione del ki in un attimo, un punto, una tecnica, contro un nemico. Il karate delle origini eredita dal kempo cinese la ricerca del ki , comune ad altre esperienze orientali, marziali e no. Il duro allenamento di Okinawa e di certi dojo giapponesi e (pochi) occidentali aumenta nei praticanti il ki , forza spirituale che però resta mimetizzata sotto la forza fisica, enfatizzata dal karate. Anche l'aikido si muove nella stessa direzione, con esiti più sottili e profondi (Ueshiba, il fondatore di quell'arte, da vecchio, senza piu allenarsi, proiettava chiunque: ormai egli era l'aikido); così pure il kendo e lo Iai . Certi stili di lotta cinese portano, in modo lento ma sicuro, allo stesso risultato: il dominio della propria energia interna ed il suo uso per fini personali o altruistici. Lo yoga indiano e tibetano con un'altra terminologia si muovono nella stessa direzione.

CHE COSA CERCARE OGGI NEL KARATE?

Ciascuno si accosta al karate con motivazioni proprie. La maggior parte di coloro che si iscrivono ad un corso cerca un'efficace difesa personale e scopre qualcosa di meno (nella maggior parte dei casi) o di più (qualche volta, incontrando maestri come Kase, Kanazawa, Shirai, Tokitsu, Montanari, Fugazza ed altri che non cito solo perché non li conosco personalmente). Poi gli anni passano e varcato più o meno felicemente il traguardo della cinquantina, per chi, come me, non è in nessun senso un “professionista” del karate coinvolto nella gestione di un organismo federale, il centro di interesse si sposta naturalmente sugli aspetti meno “fisici” dell'arte.

ASPETTI PSICOLOGICI DEL KARATE.

L'approccio alle arti marziali e alle discipline da combattimento nasce spesso dall'insicurezza, che può essere dovuta a cause fisiche (debolezza...) o psichiche (cosiddetto complesso di inferiorità). Inoltre ci può essere una forte carica di aggressività nei confronti degli altri: si vuole diventare più potenti degli altri. L'uno e l'altro atteggiamento sono collegati e denotano mancanza di equilibrio nella personalità dell'allievo. Come influisce la pratica del karate su questo atteggiamento psicologico?

• Può rafforzare l'aggressività dandole un supporto reale. La pratica del controllo, il rapporto coi compagni hanno l'effetto di attenuare questa carica; ma individui gravemente nevrotici sanno frenarsi in palestra per poi scatenarsi fuori. L'insegnante deve vigilare su questo aspetto della pratica.

• Il karate può invece riequilibrare il soggetto dandogli calma, fiducia in se stesso, eliminando o almeno alleviando la sua insicurezza. In generale il soggetto aumenta il controllo della proprie reazioni (un obbiettivo chiaramente proposto dal dojokkun : Kekki no yu o imashimuru koto ) rafforzando l'io.

• Fondamentale è il rapporto col maestro: secondo la teoria freudiana si sviluppa un transfert positivo o negativo. Il Maestro viene visto come modello, identificato con la figura del padre (buono o autoritario). In alcuni casi si può parlare di plagio. In realtà il transfert è necessario per permettere all'allievo di superare certe resistenze alla fatica e all'impegno, ma va tenuto sotto controllo da parte di tutti e due.

• In termini psicodinamici si può parlare anche di sublimazione . Le cariche aggressive di diversa origine (frustrazioni affettive, scolastiche, professionali) si mutano in atteggiamenti di grandezza spirituale, disinteresse, ecc.

• Compito dell'insegnante è di non creare allievi nevrotici e complessati ma di far sì che la pratica del karate abbia funzione equilibratrice. Si richiedono pertanto conoscenze psicologiche da parte degli istruttori che non devono mai incoraggiare a fini agonistici l'aggressività degli allievi né mantenerli in uno stato di perpetua dipendenza, ma abituare gli allievi a valutare serenamente i propri mezzi e aiutarli a “crescere”.

ASPETTI MORALI DEL KARATE.

Si tratta di un terreno spinoso: sarebbe facile (e altri l'hanno già fatto...) limitarsi a commentare il Dojokkun e il Nijukkun come dei testi sacri e darli per scontati. Bisogna invece capirli e vedere in che senso far propri i principi del perfezionamento, della giustizia, della perseveranza, del rispetto degli altri e dell'autocontrollo.

Rileggendo quelle 25 massime (possibilmente in una traduzione italiana attendibile) saltano agli occhi alcuni aspetti fondamentali: il rapporto con gli altri, il proprio sforzo verso un fine, un canone di giustizia presentato come oggettivo.

* Il primo punto è facile: non fare male per primi ( karate ni sente nashi ), considerare gli altri come fini e non come mezzi (è anche un imperativo kantiano!), lavorare con gli altri, rispettarli. Sono le regole della convivenza civile, rese più efficaci dall'altezza dello scopo che si persegue insieme.
* Secondo punto: il modello ascetico. Un fine elevato richiede uno sforzo elevato. A differenza del modello cristiano, lo sforzo non significa “mortificazione” e la contemplazione si armonizza con la vita attiva. Ken to za-zen . Pugno e meditazione.
* Terzo punto: quale modello di “bene” e giustizia dobbiamo seguire? Si dice chiaramente: la nostra coscienza, che in alcune occasioni può suggerirci cose contro la morale dominante. Un pugno può fare più bene di una carezza. I guai cominciano quando si cerca di definire questa coscienza, di capire come nasca in noi il concetto di bene o di male, che varia da persona a persona, da classe a classe, da cultura a cultura.

Il Mº Nishiyama ha parlato di “vita pulita”, non come fine ma come mezzo per la stabilità emotiva. Questo è importante: il karate non è un sistema morale o una religione, e le norma che dà in questo senso hanno il fine di garantire la serenità al praticante. Questi perciò si accorderà con quanto si sente in diritto e in dovere di fare, con un'elasticità anche abbastanza notevole. Un cattolico interpreterà i dettami della sua coscienza diversamente da un marxista, e il karate non interferirà. Solo laddove le convinzioni personali si interesechino con la sfera altrui, ci si adeguerà alla massima della tolleranza e del reciproco rispetto.

Il ruolo del maestro, che è un po' più avanti nella comprensione del significato morale del karate, è di intervenire nel caso di dubbio insegnando la via per lui giusta ( Shihan = bussola).

Alcune abitudini che l'esperienza prova dannose per il fisico o per la concentrazione sono proibite nell'ambito del dojo, come il bere alcolici e il fumare. Anche il dojokkun e il nijukkun vanno storicizzati e riferiti all'ambito in cui sono nati e alla società in cui si sono sviluppati.

Il codice del karate si tramanda piuttosto oralmente, più con l'esempio che con la teoria. La pratica del karate si accompagna a un certo rituale, che va conservato perché è la forma per quel contenuto.

ASPETTI FILOSOFICI DEL KARATE .

Il karate non è una filosofia. È una disciplina fisica e mentale che ha un'origine ibrida, frutto di tre influenze almeno: quella cinese ( ki e zen ), quella di Okinawa (con pochi risvolti teorici) e quella giapponese (con aggancio alla mentalità del Budo). Il karate ha dei legami con tutto questo e ciò suggerisce di studiarne le fonti vicine e lontane per quanto possono dare al nostro spirito.

Tentare una sintesi è assurdo perché ciascuna di quelle esperienze filosofiche rifugge dalla sistematicità: figurarsi tutte quante insieme.

Come conciliare la “filosofia del karate” (tra virgolette) con una visione del mondo, poniamo, cristiana o marxista? Credo sia un quesito individuale. A me non ha mai dato nessun problema. Il Bud o regolamenta soprattutto i rapporti tra l'individuo e se stesso e tra individuo e individuo: non abbraccia una dottrina politica, non vuole uno stato più che un altro. C'è senz'altro un grande attaccamento al proprio paese e alle proprie tradizioni, e uno spirito aristocratico; c'è un sentimento cavalleresco nei confronti dei deboli e dei diseredati.

Il rapporto con le donne è ambivalente: da un lato protezione (vedi cavalleria medievale), dall'altro però rivalutazione di un loro ruolo preciso di protagoniste (sia in Cina che ad Okinawa che in Giappone: in quest'ultimo paese tuttavia è presente una forte carica conservatrice, nel senso migliore e peggiore del termine).

La teoria del ki , infine, non è né religiosa né antireligiosa: il ki finisce con la vita, ma questo non esclude qualche forma di sopravvivenza. Il Buddismo invece crede nella reincarnazione. La scienza occidentale ammette l'esistenza dell'energia psichica e mentale, senza alcuna implicazione metafisica, e questa, per quel che può valere, è anche la mia posizione personale.

UNA PRATICA DA RACCOMANDARE A TUTTI : LA MEDITAZIONE.

Cercare il vuoto mentale perché la mente sia uno specchio dell'universo è lo scopo del buddismo zen (se pure è corretto affermare che si prefigga una scopo...) e, come tutti i praticanti sanno, karate significa appunto, oltre che “mani nude”, anche “mente vuota”.

Per i non buddisti e i non religiosi ciò che conta è la tecnica dello Zen, che cerca la calma interiore attraverso il controllo del respiro. Lo zen è una pratica semplicissima e difficilissima al tempo stesso, da consigliare a tutti i praticanti di arti marziali. I suoi risultati si vedono con gli anni.

La via occidentale è come al solito più sistematica, e parte dalla scoperta delle onde cerebrali e dalla programmazione delle stesse. “Trasmettendo” su una certa lunghezza d'onda ( alpha , da 8 a 12 hertz) inferiore a quella della veglia attiva, ma più rapida di quella del sonno, la mente umana è più disponibile alla creatività, all'apertura, al miglioramento, alla ricezione di messaggi positivi. La ricerca del livello “alpha” permette il perfezionamento di noi stessi, il superamento dei problemi, la conquista degli obiettivi che ci prefiggiamo. Il tutto con delle tecniche graduate che, una volta apprese, si possono praticare da soli. Varie scuole di “dinamica mentale” o sigle concorrenti da decenni reclutano adepti (o clienti) nei dojo occidentali.

Personalmente ritengo che la ricerca dell'interiorità vada perseguita non iscrivendosi a corsi o stage ma in solitudine, con il conforto di una guida o di un praticante più avanti di noi su questa strada.

UNA CONCLUSIONE .

L'universitario barbuto e arrabbiato che nel settembre 1971 varcò per la prima volta la soglia della palestra di via Bezzecca non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, 40 anni dopo, intento a cercare un senso complessivo alla propria esperienza. Eppure essere qui ancora a parlarne significa (scusate la banalità) che il Mº Funakoshi aveva proprio ragione: karate no shugyo wa issho de aru , il karate è regola per tutta la vita.

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20 febbraio 2011 7 20 /02 /febbraio /2011 11:02

La proposta di un giorno di festa nazionale il 17 marzo per ricordare il 150° anniversario della nascita del regno d'Italia si è trasformata in pubblica gazzarra tra favorevoli e contrari, soprattutto nel centro-destra.

Se si fosse trattato di un giorno di riposo in più per tutti i lavoratori, soprattutto in un periodo come questo di diminuzione dei diritti, incertezza del lavoro e sfruttamento crescente, come non essere d'accordo? Ma già ci precisa che questo giorno festivo sarà recuperato andando a lavorare il 4 novembre, anniversario della "vittoria" italiana nella prima guerra mondiale.

A questo punto la cosa mi è del tutto indifferente.

Il patriottismo era "cosa buona e giusta, doverosa e salutare" nell'800, quando eravamo dominati da una potenza straniera. Oggi siamo tutti cittadini europei e la nostra solidarietà dovrebbe andare a quella vasta parte del mondo afflitta dalla fame e dalla miseria e sfruttata senza pietà da stati "democratici" come il nostro.

Ridicolo e demagogico sventolare il tricolore, sia pure contro il razzismo secessionista della lega nord, un partito che rivendica il diritto di una minoranza agiata e ignorante (i cosiddetti "padani") di continuare a non pagare le tasse e fare pulizia etnica di stranieri e diversi.

La sola vera ricorrenza da festeggiare è il Primo Maggio.

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19 febbraio 2011 6 19 /02 /febbraio /2011 16:43

rosy2

 

 

 

 

C'è un solo candidato del Partito Democratico che voterei alle prossime elezioni come alternativa credibile a silvio berlusconi: è Rosy Bindi, una donna cattolica più energica, più onesta e più radicale di tutte le mezze figure proposte finora dalla scuola quadri dell'ex-Pci-Pds-ds o dalla sagrestia dell'ex-Dc-Ppi-Margherita. Ma si sa già che le "menti" dell' "opposizione" si guarderanno bene dal candidarla...

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1 febbraio 2011 2 01 /02 /febbraio /2011 20:18

Dalla Lega ce l'aspettavamo ma da Oldrini proprio no: è proprio vero che non tutti invecchiano bene come Rita Levi Montalcini e Margherita Hack! E così il comune di Sesto San Giovanni (già nota come Stalingrado d'Italia) è il primo con un'amministrazione di centro"sinistra" a proibire alle donne di indossare il burkha.

Come la Francia, ma peggio del Vaticano, dato che il papa ha recentemente difeso il diritto delle donne di vestirsi come detta loro la coscienza. Da questo momento in Lombardia le donne musulmane saranno "libere" dalla "schiavitù" del burkha. Resta inviolato il diritto alla tratta delle schiave, alla compravendita di carne femminile per la casta dei potenti.

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29 gennaio 2011 6 29 /01 /gennaio /2011 19:07

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28 gennaio 2011 5 28 /01 /gennaio /2011 16:56

giornatadellamemoria

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  • : Questo blog si occupa di poesia, di politica, di karate. Vi si trova un'eco della mia personale e soggettiva visione del mondo.
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