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3 febbraio 2018 6 03 /02 /febbraio /2018 17:26
DALLA GALERA ALLA COLONIA: ALBESE.
Grande psichiatra, la dottoressa Bellini era però una pessima psicologa perché, il giorno delle dimissioni dal Fatebenefratelli, disse a me e a mio figlio: "Ho una bella notizia da darvi: il posto ad Albese si è liberato da mercoledì prossimo.Se volete, il signor Roedner può restare qui e partire direttamente da qui".
Naturalmente "non volli" e preferii passare quei due giorni a casa, nello stato d'animo di un condannato che non riesce ad assaporare le ultime ore di libertà.
Non mi ero trovato certo a mio agio a psichiatria, anche se negli ultimi giorni mi ero un po' rincuorato al pensiero del ritorno; e non mi trovavo a mio agio neppure nel mio appartamento, perché lo ritrovavo nello stesso stato di disordine e precarietà in cui l'avevo lasciato e sapevo che di lì a poco sarei dovuto ripartire. Avevo con me una scorta di medicinali per non lasciarmi scoperto nelle 24 ore, e tutto sommato fui contento di dormire due notti nel mio letto.
All'alba di mercoledì 6 dicembre Giulio ed io ci svegliammo, facemmo colazione, lui impostò il navigatore satellitare e partimmo alla volta di Albese con Cassano, ridente (?!) paesino del Comasco. Il mio stato d'animo era piuttosto insofferente che disperato, e non migliorò il mio umore il constatare, una volta giunti sul posto, che l'istituto si chiamava "Villa San Benedetto" ed era retto dalle Suore Ospedaliere, una delle quali, di nazionalità sudamericana, ci accolse al momento del ricovero.
Senza dubbio l'ambiente era meno tetro e claustrofobico del reparto di psichiatria del Fatebenefratelli: una grande villa a due piani, circondata da un vasto parco nel quale gli ammalati potevano circolare liberamente. Anche l'atteggiamento del personale era meno sospettoso: potei conservare la cintura e il caricabatterie del telefonino di emergenza con cui avevo sostituito il mio smartphone.
Al colloquio di ammissione parteciparono lo psichiatra, dottor Cavedini, la psicologa, un'educatrice e la caposala. Mi venne spiegato che sarei stato seguito da un'equipe. Potevo riconoscere i vari ruolo dal colore dell'uniforme e del colletto (ma non ci sarei riuscito fino all'ultimo giorno!). Sarebbe stato studiato per me un programma individualizzato di attività e di spazi "da gestire in autonomia"; il dottor Cavedini si dimostrò ottimista riguardo al mio recupero completo e Fiorella, la mia educatrice, mi fece sapere che già l'indomani avrei potuto partecipare all'attività di stretching, dopodichè tutto si sarebbe bloccato per il Ponte dell'Immacolata e avrei avuto il programma completo solo a partire da lunedì.
Mentre la suora ci faceva strada nell'ascensore diretti alla camera 2 del reparto "meno uno", feci sottovoce le mie rimostranze a mio figlio: "Si può sapere che cazzo ci faccio qui fino a lunedì?" Ma mio figlio mi zittì e io, pensando a ragione che Albese era ormai l'unico ostacolo che mi separava dall'agognata libertà, feci buon viso a cattivo gioco. Anche perché, se il reparto psichiatrico era una prigione, Villa San Benedetto assomigliava piuttosto a una colonia estiva per bambini ritardati. Alle sette e mezzo ti venivano a svegliare chiedendoti se avevi fatto la doccia ma non verificando mai se mentivi o no; poi c'era la terapia del mattino. Mi chiesero se mi ero portato delle medicine da casa e sembrarono scontenti quando dissi di no, come se il costo dei farmaci uscisse dalle loro tasche. Alle otto c'era la colazione, molto più povera che al Fatebenefratelli, con un liquido dolce e colorato che era pomposamente chiamato the o caffè, accompagnato da tre biscotti o due fette biscottate. Dalle 9 a mezzogiorno c'erano le "attività": inizialmente io fui ammesso solo a "Stretching 1" ideato dal dottor Jacobson per pazienti ottantenni in sedia a rotelle. A mezzogiorno si poteva assaporare la "nouvelle cuisine" di Albese, della quale era a volte difficile individuare gli ingredienti, ma probabilmente era meglio così. A partire dalle 13, partiva una nuova serie di attività fino alle 18, ora di cena.
A partire dalle 18 e 30, i degenti dovevano far appello alle proprie risorse per tirare avanti fino all'ultima terapia serale (ore 21,30-22). Al seminterrato, dove mi trovavo io, c'era poco movimento: la maggior parte dei malati (pardon,dei convalescenti) stava a letto o si contendeva il telecomando del minuscolo televisore situato in sala da pranzo, mentre al primo piano giocavano a carte e avevano ben due televisori! Poi scendeva la notte, provvida consolatrice delle nostre sventure, ma per alcuni di noi (non per me) foriera di insonnia e di incubi.
Dalla galera alla colonia: Albese
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