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3 novembre 2012 6 03 /11 /novembre /2012 11:31

 La tendenza a considerare i kata come fonti storiche di tecniche di combattimento più realistiche del kumite di gara è abbastanza recente nel mondo del karate occidentale. Molti praticanti sono attratti dai bunkai, perché lo considerano il recupero di un’arte perduta, e affermano che le antiche tecniche di autodifesa sono state rimosse dalla pratica per colpa di istruttori poco preparati e di federazioni unicamente interessate alla trasformazione delle arti marziali in sport, accessibili a tutti e in grado di sovvenzionare le loro mire espansionistiche. Il presente articolo mira a scoprire cosa c’è dietro l’interesse crescente per la pratica dei bunkai, e a discutere se questa pratica ha davvero il valore che un numero crescente di praticanti le attribuisce.

In passato, su questa stessa rivista, ho preso in considerazione la povertà di collegamenti tra le tecniche dei kata e quelle usate nel combattimento di gara (sportivo o “tradizionale” che dir si voglia). Diversamente da chi pensa che i kata migliorino la pratica del kumite, io vedo kata e kumite come discipline separate, con ben poco in comune. Quando espongo ai miei colleghi “ortodossi” questa mia opinione (peraltro largamente condivisa), l’obiezione più frequente che mi viene mossa è che, mentre non c’è alcun rapporto tra kata e kumite sportivo, esisterebbe invece una connessione profonda tra kata e il combattimento reale, quello per la sopravvivenza.

Il metodo per apprendere e far proprie le tecniche di autodifesa contenute nei kata consiste solitamente nell’applicarle a vuoto o con un partner, in esercizi di combattimento simulato nei quali uno dei due porta un attacco predeterminato, utilizzando o meno tecniche di karate: prese o strangolamenti sono le alternative più comuni a pugni e calci. Il difensore si sposta avanti, indietro o lateralmente (variando così lo schema offerto dal kata) per controllare e neutralizzare l’attacco, poi risponde ribaltando i ruoli. Spesso il punto di partenza dell’applicazione è una delle tecniche difensive meno ovvie del nostro repertorio, ad esempio la prima “mossa” di quasi tutti i kata superiori, che viene poi trasformata in una torsione del polso, una leva al gomito o una proiezione che lascia l’attaccante in balia del difensore.

L’interesse crescente per le applicazioni dei kata suscita numerosi interrogativi.

  • Qualcuna delle applicazioni attuali è storicamente comprovata?
  • I kata sono stati mai applicati originariamente in questo modo, e quando?
  • La pratica del bunkai può servire a colmare una lacuna nell’allenamento del karate a media distanza?
  • La pratica del bunkai è davvero più vicina al combattimento reale rispetto a quella del jiyu kumite?

Sono sicuro che molti tradizionalisti che leggeranno queste quattro domande proveranno un sentimento di legittima indignazione, seguito dall’impulso irrefrenabile a rispondere “sì” a tutte queste domande. Personalmente, tuttavia, sono più portato all’investigazione che al dogma e quindi…procedo nell’indagine!

 

IL MODELLO DI PRATICA ATTUALE

Il karate che viene attualmente praticato è la giustapposizione di due discipline separate: il kumite e il kata: il kihon può essere inteso come esercizio propedeutico allo sviluppo delle qualità tecniche e fisiche richieste in entrambe le specialità, ma prevalentemente nel kata. Al M° Shirai va peraltro il merito di aver ideato, all’epoca della fondazione della Fikta, combinazioni di kihon (richieste per gli esami di Dan) che ben si prestano per un’applicazione al combattimento.

Il kata agonistico è un’arte dimostrativa non dissimile dalla ginnastica artistica, nella quale vengono esibiti buona forma, velocità, scioltezza, coordinazione e ritmo. Qualcuno obietterà che la pratica del kata va ben oltre, ma finché le competizioni e gli esami di kyu e dan valorizzeranno i kata solo o prevalentemente in quanto dimostrazioni di tecnica pura, qualsiasi altra pratica deve considerarsi statisticamente insignificante. La gente si comporta nel modo in cui sa di ottenere una ricompensa, ed attualmente gli atleti sono apprezzati se sanno eseguire un kata visivamente spettacolare, secondo i parametri stabiliti dalle regole di gara o dai requisiti per superare un esame.

Nell’altra specialità, il kumite, due atleti si fronteggiano in un “duello” con un arbitro tra di loro. L’area del combattimento è definita da linee tracciate sul pavimento come in qualsiasi campo di gara, e i contendenti possono scegliere come bersaglio dei loro colpi solo aree “sicure” come la faccia e la parte anteriore del busto. Il contatto eccessivo viene sanzionato, ed ugualmente proibite sono anche tecniche come i colpi di taglio al collo (ad onor del vero, nelle circolari della nostra Federazione, il loro impiego è definito come temporaneamente sospeso). Il combattimento viene arrestato dopo due minuti, misurati con un cronometro.

Queste due discipline (kata e kumite) hanno in comune ben poche cose: lo zenkutsudachi (liberamente personalizzato nel combattimento), il gyakuzuki, l’oizuki (per quei pochi atleti velocissimi che riescono a utilizzarlo) e il maegeri. A parte questo limitatissimo numero di tecniche, non c’è nessun’altra sovrapposizione.

Il bunkai non si inserisce agevolmente in questo schema di pratica. Mentre il combattimento consiste nello sferrare colpi solo in zone del corpo “sicure”, l’allenamento del bunkai può includere tecniche dei kata che prendono di mira punti vitali, come occhi e genitali. Tuttavia, proprio a causa della pericolosità di tali tecniche, non è possibile permettere la disputa di incontri che le ammettano, dato che fratturare un gomito, slogare un polso, cavare un occhio e rompere l’osso del collo non sono pratiche accettabili o legalmente difendibili! Di conseguenza gli aspetti più intensi del combattimento – i rapidi cambiamenti di distanza, gli attacchi a sorpresa, la necessità di prendere rapide decisioni quando si è sotto pressione, la tensione del confronto con un avversario – tutto questo è escluso dalla pratica del bunkai.

Nello stesso modo, la pratica del bunkai non si armonizza facilmente con quella del kata. Per esempio, un kata può avere un certo ritmo particolare che l’esecutore deve rispettare, ma che viene compromesso dall’esigenza di applicare le tecniche con un avversario. Inoltre, alcune tecniche dei kata, come ci sono state tramandate, non si adattano facilmente alla miglior applicazione pratica possibile. Per esempio, in alcuni casi la posizione delle braccia dev’essere invertita per ottenere la massima efficacia.

Dunque che cos’è il bunkai? Una terza specialità per il karate del futuro?

 

SIGNIFICATO STORICO

Alcuni appassionati di bunkai, numerosissimi in Italia grazie all’opera di divulgazione messa in atto nell’ultimo decennio dal M° Shirai, sostengono che riscoprendo le applicazioni dei kata ci stiamo riappropriando delle nostre tradizioni, allontanandoci dalla commercializzazione delle arti marziali e dall’eccessiva enfasi sulle competizioni (anche se il bunkai stesso è diventato specialità agonistica!) . Dicono che le applicazioni dei kata sono la pratica tradizionale, e che il karate è stato importato da Okinawa nel Giappone del 20° secolo in versione ridotta e censurata. Alcuni si spingono fino ad affermare che Funakoshi stesso non conosceva molte delle applicazioni, o che semplicemente non le ha insegnate ai propri allievi.

Se le cose stanno così, da dove provengono questi bunkai? Personalmente non vedo prove decisive del fatto che siano applicazioni antiche arrivate fino ai giorni nostri. Io credo che l’applicazione dei kata come la si insegna oggi sia un’esperienza del tutto nuova, e che poco o nulla provenga dall’allenamento originario di Okinawa.

Le ragioni di questa mia convinzione?

 

  • Ci sono poche somiglianze tra le varie applicazioni che vengono insegnate attualmente dai diversi Maestri e nei diversi stili di karate. Se fossero storicamente comprovate, sarebbero simili… almeno ipotizzando che più di una persona al mondo abbia avuto accesso a queste informazioni!
  • Nessun libro di karate pubblicato nel 19° secolo o in precedenza descrive o illustra applicazioni della complessità o qualità di quelle insegnate oggigiorno. Le applicazioni storicamente documentate sembrano piuttosto semplici.
  • Personalmente (con le eccezioni dei Maestri Shirai e Tokitsu), non ricordo nessun Maestro giapponese che nel corso degli ultimi 35 anni abbia insegnato applicazioni complesse, che andassero oltre quanto pubblicato nella serie Best Karate del M° Nakayama, apparsa negli anni ’80.

 

Dimentichiamo per un istante le prove schiaccianti che i bunkai che vengono insegnati oggi sono stati creati all’incirca nell’ultimo decennio. Se queste applicazioni sono storicamente documentate, quale periodo storico riflettono? Il Giappone degli inizi del 20° secolo? Okinawa nell’800? Ancora più indietro? La provincia cinese del Fukien? O forse altre aree della Cina, prima ancora del coinvolgimento di Okinawa nel processo di elaborazione dell’arte del karate?

Per secoli il karate ha conosciuto una continua condizione di cambiamento e di evoluzione che è durato fino al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando alcune associazioni sportive (prima fra tutte la JKA) hanno tentato con successo di “normalizzarne” la pratica e standardizzarne l’insegnamento per creare uno sport che conoscesse diffusione mondiale. In quale di queste diverse fasi di sviluppo sono stati creati i bunkai? Nessuno sembra essere in grado di reperire e fornire questa informazione, e tutte le rivendicazioni avanzate finora sono simili: “Il mio stile possiede ancora le applicazioni originali e ci sono state insegnate, ma sono segrete per tutti tranne che per pochi che appartengono alla ristretta cerchia degli allievi del Maestro.” Pretese del genere vengono dallo Shito-Ryu, dallo Shorin-Ryu, dal Goju-Ryu, nonché dai praticanti di arti cinesi dalle origini più disparate: basta sfogliare le pagine di Samurai o compiere un rapido tour di Internet per rendersene conto.

In conclusione, sembra improbabile che gli attuali bunkai siano le “applicazioni originali”. Ma questo non le rende meno efficaci o interessanti da studiare!

 

VERSO IL COMBATTIMENTO REALE?

La pratica del bunkai secondo molti istruttori colma una lacuna dell’allenamento abituale, in quanto insegna a combattere a corta distanza, laddove il combattimento sportivo avviene, in modo simile al pugilato, ad una distanza medio-lunga.

Per molti la pratica del bunkai non significa solo cimentarsi in qualcosa di nuovo, interessante e impegnativo, ma è piuttosto un esercizio intenzionalmente finalizzato a migliorare le proprie possibilità di sopravvivere e di vincere in caso di attacco reale. Tuttavia, come ho osservato in precedenza, molti degli elementi del combattimento presenti in un vero kumite, come la reazione, la scelta di tempo e la distanza, sono impossibili da praticare in un esercizio preordinato e concordato. Ma anche il kumite (di palestra o di gara) ha i suoi limiti: abitua i praticanti a difendersi usando le tecniche che allena di più e i bersagli che preferisce quando è sotto pressione: i bersagli sicuri.

Un veterano con oltre vent’anni di pratica dello Shotokan un giorno mi ha confidato: “Una volta un tipo mi ha aggredito. Sai cos’ho fatto? L’ho colpito al mento con un bellissimo kizami-zuki, con una scelta di tempo perfetta. Non ha neanche fatto in tempo a vedere che cosa l’ha colpito. Sfortunatamente quel pugno l’ho anche controllato, perché ero allenato a fare così. Dopodiché quel tipo mi ha dato una manica di botte.”

Anche nella pratica del bunkai i colpi vengono controllati, tuttavia viene utilizzata una gamma più vasta di tecniche che possono essere impiegate più facilmente in caso di aggressione. Il fattore sorpresa, che si riduce a ben poco utilizzando attacchi elementari simili a quelli del kihon ippon kumite, può essere in parte ristabilito variando la direzione, il tempo e il numero degli attacchi per rendere la situazione più realistica.

Forse l’argomento più forte contro l’utilità del bunkai in un combattimento reale è che non prende in considerazione l’ambiente. In caso di vera aggressione, un essere umano può trovarsi su un terreno irregolare, e intorno a lui ci possono essere delle cose che potrebbe usare per difendersi. Scagliare contro l’aggressore dei quadri presi dalle pareti di casa, dei tavolini o delle sedie, o raccogliere della sabbia o dei sassi per usarli come armi sono tattiche fattibili e sensate quando si è minacciati. Le applicazioni dei kata presuppongono invece una coppia di persone a piedi nudi su un pavimento lucido, liscio e perfettamente pianeggiante, senza armi a disposizione di nessuno dei due.

 

UNA SINTESI…PROVVISORIA!

Anche se i fondamenti storici e la superiorità tattica del bunkai rispetto al kumite sono tuttora oggetto di legittima discussione, lo studio delle applicazioni dei kata è interessante e, perché no?, divertente, in quanto interviene a variare la ripetitività talvolta ossessiva di una lezione tradizionale. A mio parere la crescente popolarità del bunkai potrebbe anche essere una risposta indiretta alla crescente diffusione di arti marziali “ibride”. Spesso dei karateka, opposti a praticanti di altre arti marziali o sport di combattimento, hanno conosciuto brucianti sconfitte in competizioni “senza esclusioni di colpi”. Un’eccezione in questo senso è rappresentata dal Kyokushinkai del M°Oyama, i cui migliori esponenti si sono dimostrati capaci di contrastare il passo con successo a kick boxers e praticanti di Muai Thai: ma quanti di noi sono disposti a sottoporsi alle estenuanti e rischiose sedute richieste da questo stile? Oggigiorno molti praticanti della nostra arte e in particolare del nostro stile, rendendosi conto dei limiti del jiyu kumite, ricercano anche nei kata e nei bunkai il segreto di una maggiore efficacia. Solo il tempo potrà dar loro torto o ragione.

 

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