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1 aprile 2018 7 01 /04 /aprile /2018 09:36

No, pesce d'aprile! Per vedere l'unità del karate italiano (ammesso che ci sia) dovremo aspettare una legge draconiana come quella francese, che impone un esame di Stato per ottenere la qualifica di istruttore e poter insegnare.

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30 marzo 2018 5 30 /03 /marzo /2018 10:30

BOTTA E RISPOSTA CON MICHELE SERRA SULLA NATURA DEL"GRILLISMO"

 

Caro Serra,
penso che la tua analisi del "grillismo" sia sbagliata. Gli italiani non hanno votato 5 stelle per insofferenza alla sinistra delle regole, ma perché la sinistra è venuta meno alla sua "mission" della salvaguardia dei diseredati. Se ci fosse un minimo di giustizia sociale, anche le tasse si pagherebbero meno malvolentieri.
Sergio Roedner, Milano

Caro Roedner, presto avremo qualche elemento in più per capire. Se i cinquestelle faranno un accordo con il centrodestra, sarà poi il loro elettorato "di sinistra" a trarne le conseguenze. Se cercheranno (con cinque anni di ritardo) di cercare una stampella nel Pd, allora si aprirebbero prospettive nuove. Non c'è dubbio, comunque, che il mio giudizio sui cinquestelle sia di molto influenzato dalla mia lunga collaborazione-amicizia con Beppe Grillo dalla fine degli Ottanta a metà Novanta. Posso garantire che di sinistra non è. Ma neanche un po'.
Michele Serra

La natura del grillismo (botta e risposta con Michele Serra)
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15 marzo 2018 4 15 /03 /marzo /2018 13:44

 

La mattina del 16 marzo 1978, verso le nove di mattina, un commando della Brigate Rosse rapì a Roma in via Fani il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, dopo aver ucciso i cinque uomini della sua scorta. Moro venne tenuto prigioniero in un appartamento di via Montalcini per quasi due mesi, durante i quali lo statista fu sottoposto a un “processo politico” da parte dei suoi carcerieri ed ebbe modo di scrivere numerose lettere ai familiari ed a uomini politici del suo partito. Fallito il tentativo di ottenere uno scambio di prigionieri con lo Stato italiano, Aldo Moro fu ucciso e il suo corpo, grazie a una telefonata anonima, fu trovato nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata a metà strada fra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano, per simboleggiare la protesta dei brigatisti contro il “compromesso storico” che si andava profilando tra i due maggiori partiti della scena politica italiana degli anni ‘60. Lo scopo di questa nota è di far conoscere alle giovani generazioni un episodio cruciale della storia del nostro Paese, prescindendo da ogni dietrologia e ricostruzione fantasiosa.
I PROTAGONISTI.
Aldo Moro era presidente della Democrazia Cristiana e proprio quel giorno si apprestava a recarsi a Montecitorio per giurare fedeltà allo Stato, in occasione della nascita del nuovo governo, che per la prima volta godeva della “non sfiducia” del partito comunista. Tuttavia fu scelto dai brigatisti come vittima designata non tanto in quanto artefice dell’accordo storico tra DC e PCI, quanto perché, per ammissione degli stessi brigatisti, il suo rapimento sembrava più agevole di quello di altri due esponenti del suo partito, Giulio Andreotti e Amintore Fanfani.
Le Brigate Rosse erano un gruppo clandestino di estrema sinistra in azione da ormai una decina di anni nel nostro Paese. I suoi quadri dirigenti si erano formati nelle lotte operaie e studentesche degli anni ’60, quando sembrava imminente una rivoluzione socialista. Erano passati alla clandestinità e alla lotta armata quando la prospettiva rivoluzionaria era fallita e si era invece palesata la minaccia di un colpo di Stato fascista e/o militare in Italia, che parte degli apparati politici e statali cercavano di attuare attraverso la strategia della tensione (eseguire attentati in banche, stazioni e treni e dare la colpa all’estrema sinistra, in modo da provocare la richiesta di un “governo forte”). Le prime azioni delle Brigate Rosse erano state relativamente incruente: sequestravano dirigenti industriali, li sottoponevano a breve processo, li fotografavano con appeso al collo un cartello o dietro una bandiera con la stella a cinque punte, e poi li rilasciavano. Inizialmente colto alla sprovvista, lo Stato era successivamente riuscito a infiltrarsi dell’organizzazione e ad arrestarne i capi, che si apprestava a processare a Torino: Renato Curcio, Alberto Franceschini, Maurizio Ferrari e Prospero Gallinari. Di costoro solo Prospero Gallinari, evaso dal carcere di Treviso, partecipò materialmente al sequestro Moro, mentre gli altri rivendicarono l’azione da dietro le sbarre.
L’AGGUATO.
All’agguato presero parte undici brigatisti. La colonna con Aldo Moro era composta da due auto, quella in cui viaggiava il presidente della DC e quella della scorta. Moro uscì dalla sua casa poco prima delle 9, salendo su una Fiat 130 blu guidata dall’appuntato Domenico Ricci. Accanto a Moro sedeva il capo scorta, il maresciallo Oreste Leonardi. La 130 del presidente era seguita da un’Alfetta bianca, con a bordo gli altri tre uomini della scorta: il vice-brigadiere Zizzi e gli agenti di polizia Rivera e Iozzino. Quando il convoglio imboccò via Fani e prese a discenderla rapidamente, diretto all’incrocio con via Stresa, scattò l’agguato. La Fiat 128 guidata da Mario Moretti (componente del comitato esecutivo e capo della colonna romana delle Brigate Rosse) si mise davanti all’auto di Moro e arrivata all’incrocio inchiodò bruscamente, facendosi tamponare dalla 130 del presidente che fu a sua volta tamponata dall’auto della scorta. L’altra 128 con a bordo i brigatisti Lojacono e Casimirri si mise di traverso dietro l’auto della scorta.
A questo punto da dietro le siepi entrò in azione il “gruppo di fuoco” di quattro brigatisti che indossavano uniformi dell’Alitalia e spararono contro la scorta da breve distanza con pistole mitragliatrici. I quattro erano: Valerio Morucci (della colonna romana), Raffaele Fiore (proveniente dalla colonna di Torino), Prospero Gallinari (evaso dal carcere di Treviso) e Franco Bonisoli (proveniente dalla colonna di Milano). Spararono in tutto 91 colpi, dei quali 45 andarono a segno. Morucci uccise subito Leonardi ma il suo mitra si inceppò e solo successivamente eliminò l’autista di Moro. Anche Rivera e Zizzi furono subito mortalmente feriti da Gallinari mentre l’agente Iozzino riuscì a uscire dalla macchina e rispondere al fuoco prima di essere ucciso. L’agguato ebbe successo anche perché i mitragliatori in dotazione alla scorta si trovavano del bagagliaio dell’auto, dato che i poliziotti non eranno addestrati al loro uso.
Dopo lo scontro a fuoco, Fiore e Moretti fecero uscire Moro dalla 130 e lo fecero entrare in una Fiat 132 blu che Bruno Seghetti aveva avvicinato allo stop. L’auto con a bordo il presidente e i tre brigatisti si allontanò lungo via Stresa, seguita dalla 128 con a bordo Casimirri, Lojacono e Gallinari. L’azione era durata soltanto tre minuti, dalle 9,02 alle 9,05. Più avanti era pronto un furgone grigio Fiat 850 T sul quale in piazza Madonna del Cenacolo ebbe luogo il trasbordo di Moro, che venne fatto entrare in una cassa di legno collocata nel furgone. Nel parcheggio sotterraneo della Standa dei Colli Portuensi la cassa con il sequestrato fu trasferita su una Citroen Ami 8. Moretti, Gallinari e Maccari portarono la macchina fino in via Montalcini 8, l’appartamento intestato al Maccari e attrezzato per servire da luogo di detenzione di Aldo Moro.
Il sequestro Moro e le Brigate Rosse
Il sequestro Moro e le Brigate Rosse
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13 marzo 2018 2 13 /03 /marzo /2018 13:12

RICORDANDO FAUSTO E IAIO
Quarant'anni fa, il 18 marzo 1978, due giovani militanti del centro sociale Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannuzzi, da tempo impegnati nella lotta contro lo spaccio di eroina nel quartiere Casoretto, furono uccisi con otto colpi di pistola davanti al cancello della Sir James Henderson School di via Mancinelli. Come per tanti altri omicidi del periodo, i colpevoli non furono mai individuati ma vanno ricercati nei gruppi eversivi dell'estrema destra. Onore comunista ai compagni caduti!

L'assassinio di Fausto e Iaio
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2 marzo 2018 5 02 /03 /marzo /2018 09:33

RICORDI DEL 68: GRAVI INCIDENTI ALLA CATTOLICA PRESIDIATA DALLA POLIZIA.
Milano, 25 marzo 1968, sera.
C'ero anch'io stavolta. Anch'io ho sentito gli studenti dichiararsi amici dei poliziotti che li sorvegliavano, vittime anch'essi del sistema, ed anch'io ho visto, come risposta, la selvaggia forza con cui i poliziotti hanno caricato gli studenti percuotendoli coi pesanti manganelli senza far distinzione tra uomini e donne, liceali e universitari.
Tutto è iniziato alle 15 in via Festa del Perdono dove, dopo molte incertezze, si è formato un corteo che ha decisamente puntato sulla Cattolica che, come è noto, era presidiata dalla polizia. Nel frattempo, io mi trovavo proprio all'università Cattolica ed ho assistito, tra le 16 e le 17, al ridicolo spiegamento delle forze dell'ordine che andavano a sorvegliare le vie adiacenti.
Lunga, snervante attesa del corteo che non arriva; poi, alle 17 e 15, sparsi e alla rinfusa, i primi scaglioni di studenti. Un megafono sistemato su un'auto avverte tutti di portarsi presso i portoni dell'università e di fare il sit-in. Nel frattempo sopraggiunge il grosso del corteo, formato da studenti della Statale, della Bocconi e di alcune scuole medie fra cui ampiamente rappresentato l'Einstein. Alle 18 si può calcolare che tremila persone occupino piazza S. Ambrogio.
Viene tenuta un'assemblea, si chiede invano ripetutamente al rettore di farsi vivo e ai poliziotti di allontanarsi. Alle 18,30 infine i gruppi più avanzati cominciano a far ressa contro i poliziotti, si menano le mani. Ma la polizia reagisce con violenza estrema, carica i manifestanti, la fuga è generale e, per gli ultimi della fila, senza scampo. Cadono gli amici intorno a me, colpiti dalle manganellate; si vedono ragazze insanguinate e piangenti.
La rabbia è cattiva consigliera, un gruppo di ragazzi circonda alcuni poliziotti ma i loro colleghi, armati di elmetto e bastone, caricano ancora una volta la folla che si disperde indignata nelle vie adiacenti,progettando di occupare il centro e di opporre resistenza armata. Alle 19 la situazione è ancora fluida, ma il movimento studentesco ha dato prova di grande forza.

Ricordi del 68: gli scontri di Largo Gemelli (25 marzo 1968)
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1 marzo 2018 4 01 /03 /marzo /2018 23:12

IL MIO 68.
Il mio 68 è stato davvero entusiasmante. Frequentavo il terzo anno di corso al Ginnasio-liceo Cesare Beccaria di Milano, e nel mese di marzo vennero gli studenti universitari a volantinare davanti a scuola per informarci di quello che stava succedendo in Francia e anche in Italia. Cominciai a sentir parlare di "autoritarismo" e di "scuola di classe" e con un misto di eccitazione e di vergogna vidi i "maoisti" barbuti spintonare bidelli e professori.
Il 25 marzo ci fu uno sciopero generale degli studenti medi al quale partecipai anch'io, poi tutti i cortei confluirono in largo Gemelli, davanti all'Università Cattolica, con l'intento di rioccuparla dopo l'espulsione di Capanna e di altri due leader della rivolta. Invece la polizia, che aveva una caserma di fronte all'università, ci caricò con estrema violenza. Ci furono caroselli di gipponi,lanci di lacrimogeni e manganellate, anche se io ritornai a casa illeso, con gli occhi che bruciavano per il fumo acre dei candelotti.
Fu solo la prima di una lunga serie di manifestazioni alle quali partecipai in quell'anno memorabile e nei tre o quattro successivi. Ricordo l'assalto al Consolato americano, la manifestazione davanti al Corriere della Sera, quella per la prima della Scala. Numerosi cortei partivano da largo Richini per essere di lì a poco sciolti dalla poilizia.
Al liceo cambiò tutto, a partire dal modo di vestirsi e di rapportarci coi professori. Tentammo un modo alternativo di insegnare sostituendoci ai professori e organizzando seminari. Una generazione di studenti imparò a parlare in pubblico grazie alle assemblee, dapprima convocate autonomamente, poi "concesse" dai presidi per legalizzare lo status quo. A Milano nacque un nuovo gioco di società, fascisti (con sede fisse in piazza San Babila) contro "cinesi" (con base all'università Statale). Girare per il centro indossando un eskimo, con barba e capelli lunghi, era un'impresa di cui vantarsi a lungo con gli amici.
Complessivamente il 68 fu perme un periodo in cui lo studio del marxismo e la lotta politica si fusero armonicamente col divertimento e con le prime storie d'amore, cominciate rigorosamente all'interno del movimento: dopo tutto, come ha dimostrato ampiamente il film "Quadrophenia" (ambientato però qualche anno prima in Inghilterra ai tempi delle lotte fra "rockers" e "mods") fare a botte o scappare davanti alla polizia con la ragazza poteva essere il preludio eccitante di qualcosa di completamente diverso...

Il mio Sessantotto
Il mio Sessantotto
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27 febbraio 2018 2 27 /02 /febbraio /2018 09:30
Nella vita di ciascuno di noi vi sono centinaia di azioni da compiere quotidianamente soltanto per proseguire tranquillamente il trend abituale, dal momento in cui ci svegliamo a quello in cui andiamo a dormire. La maggior parte di queste azioni viene svolta "automaticamente", senza bisogno di alcun processo decisionale.
Ebbene, nel caso di persone depresse o afflitte da disturbi ossessivo-compulsivi, il pilota automatico cessa parzialmente o totalmente di funzionare, causando una progressiva paralisi. Per illustrare concretamente come ciò avviene, farò riferimento al mio caso personale, specificatamente al periodo più buio, settembre-ottobre 2017.
Mi sveglio alle sette, dopo una notte di sonno intermittente. Sono ovviamente di pessimo umore e mi chiedo se alzarmi subito oppure cercare di dormire un paio d'ore. Decido (non senza sensi di colpa) per la seconda opzione, mi giro e rigiro nel letto, mi riaddormento e mi sveglio di colpo: sono le nove e mezzo! Perdo un quarto d'ora per valutare se cambiare o no maglietta e biancheria, e una volta in bagno l'alternativa doccia-non doccia mi blocca nuovamente. Faccio colazione e vado a prendere il giornale, addolorato per la perdita di un euro e cinquanta! Tornato a casa, mi siedo in poltrona e comincio a leggere, ma dopo venti minuti la lettura dell'articolo di fondo di Eugenio Scalfari mi irrita a tal punto che devo desistere. Accendo il PC e do un'occhiata al cellulare: non si è fatto vivo nessuno. Mi chiedo se valga la pena di scrivere un post su Facebook o sul blog ma concludo che non ho niente di interessante da dire.
Apro il frigo: è pieno di pane raffermo e di cibi non consumati. Devo andare al supermarket? Mancano la frutta e la coca-cola, ma per il resto sono a posto. Ma cosa mangerò a mezzogiorno? Passo in rassegna le varie possibilità, ma nessuna mi alletta, anche perché non ho appetito.
Do un'occhiata all'orologio a muro in cucina: mio dio, sono solo le undici! Decido di tornare alla lettura del giornale e di andare a fare la spesa (se mai...) nel pomeriggio. Pranzerò nel bar sotto casa, tanto per cambiare. Dalle undici alle dodici lotto contro il sonno e la noia provocati dalla lettura di Repubblica.
Alle dodici in punto sono al bar e Mario mi propone dieci diversi tipi di panini, arabi e no, vegetariani o meno, primi piatti e piatti unici. Celo il panico e opto per un noiosissimo panino con mozzarella e pomodoro che avrei potuto benissimo farmi da solo a casa.
Quando rientro sono le dodici e mezzo. Accendo il televisore e lo sintonizzo sulla Sette. Mi aspetta un pomeriggio intero di televisione, intervallato da un paio di telefonate a mio figlio. Ho deciso di rimandare a domani la visita al supermercato perché ho ancora una pizza in frigo e sono troppo stanco per affrontare l'impresa...
Se la narrazione vi ha snervato, potete comprendere il mio stato d'animo di allora. Le cose non sono cambiate magicamente dall'oggi al domani, forse potrei usare l'immagine di un iceberg che sotto l'effetto del calore comincia lentamente a sciogliersi. Così è successo a me: dopo il soggiorno ad Albese, durante il quale mi sono state offerte varie attività, ho gradualmente ripreso ad essere autonomo nelle mie scelte e soprattutto a non cincischiare troppo: è meglio una visita di troppo dal panettiere che mezz'ora di agonia amletica di fronte all'alternativa tra sottilette e Philadelphia!
Quando il pilota automatico non funziona
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27 febbraio 2018 2 27 /02 /febbraio /2018 08:30

I SOGNI
E' da più di un secolo (esattamente dal 1899, quando Freud scrisse la sua "Traumdeutung") che gli psicologi sanno che i sogni sono espressione dell'inconscio, come i motti di spirito e i lapsus. Freud si spinse addirittura a sostenere che i sogni sono espressione di desideri inconsci, anche quando si presentano sotto forma di incubi. Si ritiene che l'attività onirica sia importantissima per l'equilibrio psichico di una persona.
Uno dei miei problemi, da depresso, è stato che ho perduto completamente il sonno, sia durante la notte che durante il giorno. Anche il ricorso a sonniferi potenti come il Minias, negli anni, mi ha portato ad assuefazione, quindi alla perdita di efficacia del farmaco. Poco prima del mio ricovero, quaranta o sessanta gocce di Minias (una dose che vi farebbe dormire per 24 ore) mi procuravano soltanto due o tre ore di "blackout". Col sonno se ne sono andati anche i sogni.
I pochi sogni che facevo mi davano ben poco sollievo perché erano una rappresentazione inquietante del mio travaglio interiore, in particolare della mia crescente difficoltà a prendere decisioni. Ad esempio, dovevo attraversare la città, ma non ricordavo dove avessi parcheggiato la macchina, quindi prendevo una bicicletta ma le gomme erano sgonfie e io facevo una fatica enorme a pedalare su per una ripida salita...e una volta in cima mi accorgevo che avevo perso la strada di casa.
In ospedale mi tolsero completamente le benzodiazepine e le sostituirono con un farmaco, il trazodone, appartenente ad una diversa classe chimica, che associa alla funzione di ipnotico quella di antidepressivo e manifesta la propria efficacia fin dalla prima settimana di utilizzo.
Come d'incanto, ritrovai il sonno e ripresi a sognare. Da fedele seguace di Freud, faccio in genere sogni nei quali ottengo gratificazioni nei miei ccampi per me più importanti: la famiglia, l'insegnamento, la pratica del karate, la scrittura. Le mie origini ebraiche, o più probabilmente recenti difficoltà finanziarie, suscitano altri sogni nei quali ottengo e maneggio notevoli quantità di denaro. Spesso i sogni proseguono la notte successiva e sono caratterizzati da notevole realismo. Non mi sveglio frustrato dalla constatazione che si trattava solo di un sogno, ma col sorriso sulle labbra di chi ha assistito a un bel film.
In conclusione, dormire bene mi permette nuovamente di sognare e, in un circolo virtuoso, è vero anche che fare dei bei sogni favorisce un buon sonno, perchè vado a dormire già sapendo che il mio sonno non sarà disturbato da troppi risvegli né rovinato da incubi.

I sogni e il loro significato
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20 febbraio 2018 2 20 /02 /febbraio /2018 09:06
IL "PRONTO SOCCORSO"
"Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata, vede qual loco d'inferno è da essa"
 
Il pronto soccorso di un ospedale di una grande città è, e non potrebbe forse essere diversamente, la negazione stessa del proprio nome. A meno di non arrivarci in un momento straordinariamente tranquillo, difficilmente prevedibile da chi sta male, il soccorso vi è tutto meno che pronto. Auguro anzi a chi mi legge, se fosse costretto a presentarsi all'astanteria di Niguarda o del Gemelli, di essere come me costretto a lunghe attese: in caso contrario significherebbe che si trova in arresto cardiaco, o più sanguinante di un agnello pasquale.
Un altro nome ingannevole è quello di "triage": evoca al paziente bisognoso di cure tempestive la nozione confortante di "maternage" (le coccole della mamma) o quello eccitante di "ménage à trois". Invece significa "smistamento", e il ruolo di Minosse in questo antinferno è affidato a un infermiere, non a un medico.
Gli potete arrivare davanti camminando con la vostre gambe, solo o accompagnato da un parente, oppure in lettiga scortato da due volontari della Croce Rossa, ma il nostro Minosse di turno non si farà ingannare, né tanto meno impressionare dalle apparenze. Ne ha viste di peggio. Dovrete alzarvi, andare allo sportello e porgergli un documento e la tessera sanitaria. La procedura di registrazione sarà interrotta mille volte da arrivi di ambulanze, telefonate, ritorni di candidati respinti o altro. L'infermiere non perderà il suo "aplomb". Con aria di degnazione vi farà infine entrare nella sua gelida guardiola, vi prenderà i parametri vitali constatando che non avete la febbre e che i battiti cardiaci e la pressione sono nella norma. Tutto ai suoi occhi conferma che gli state solo facendo perdere tempo. Gli ripeterete che avete una colite emorragica e che vi sentite svenire. Tirerà un sospiro, vi allaccerà un braccialetto al polso e vi inviterà ad accomodarvi in sala di attesa. Siete, inesorabilmente, un "codice verde", bisognoso cioè di cure "urgenti ma differibili" (un altro ossimoro).
Il vostro destino è già deciso: passerete la giornata (o la nottata, in pochi casi l'una e l'altra) al pronto soccorso, sorpassato da pedoni investiti sulle strisce (che guarderete passare con una certa invidia) vecchietti intubati, tossicodipendenti in crisi di astinenza, ladroni extracomunitari ammanettati e scortati da gentilissimi carabinieri o poliziotti.
Infine, prima o poi, ma più poi che prima, arriverà il vostro turno. saluterete con un cenno della mano il trepidante figliolo ed entrerete in una stanza dove sarete visitato dal medico di turno. Costui (o costei), a sua volta interrotto mille volte da telefonate, richieste di consulti e amici che progettano una serata divertente, vi misurerà nuovamente i parametri vitali mentre voi vi affannate a spiegargli/le che il problema è un altro. Con un sospiro rassegnato, si infilerà i guanti chirurgici e procederà ad un'ispezione in loco, constatando che non avete nessuna emorragia in atto. si toglierà i guanti e si siederà al computer, intento/a a redigere la vostra lettera di dimissioni. A questo punto c'è poco che possiate fare: fingere uno svenimento da sdraiato sarebbe poco credibile.
Tentate un'ultima carta dicendo che nei giorni passati avete perso molto sangue, che in casa siete svenuto e che se vi fa uscire in quelle condizioni le responsabilità saranno sue. La doppia carta della compassione e del ricatto, soprattutto con le dottoresse, può fare un certo effetto. Il massimo che potete attenere (a me è accaduto solo al terzo tentato ricovero, al fatebenefratelli) è che il medico decida di farvi un prelievo. Altrimenti sarete degradati a codice bianco, candidati all'espulsione immediata, e se avete meno di 65 anni dovrete anche pagare il prezzo della vostra intrusione al "pronto" soccorso. Nel caso del prelievo, è garantito che passerete almeno altre due ore ad aspettare gli esiti dei vari esami e la loro "valutazione" da parte del medico, che nel frattempo potrebbe anche essere cambiato, dato che i turni dei dottori sono molto più brevi di quelli dei malati.
Nel mio caso, arrivato di prima mattina, dopo una giornata di digiuno e due o tre visite in bagno, venni "rivalutato" a metà pomeriggio e la fortuna sfacciata che mi arrise volle che due o tre parametri fossero fuori norma, in particolare il potassio. Così mi venne fatta subito una flebo e la dottoressa di turno inizialmente mi propose di passare la notte in osservazione.
Mentre già mi prefiguravo una nottataccia in sala di aspetto (come già dieci anni prima in occasione della rottura di una quarantina di costole) la dolcissima luminare, regina del pronto soccorso, prese una decisione più drastica e disse. "La faccio ricoverare. Se una persona si presenta tre volte al pronto soccorso è chiaro che vuole comunicare un suo bisogno".
Abbagliato da tanto acume, la ringraziai sentitamente. Le porte del reparto di medicina si apersero magicamente per me.
Il pronto soccorso
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9 febbraio 2018 5 09 /02 /febbraio /2018 10:21
I SEGNALI
"Tu vuo' ch'io rinovelli/ disperato dolor che 'l cor mi preme/ già pur pensando, pria ch'io ne favelli".(Dante, Inferno).
Mi è stato suggerito di rievocare i sintomi della mia depressione, adesso che ne sono completamente fuori, mentre i ricordi sono ancora freschi. Questo col duplice scopo di riconoscerli la prossima volta che dovessi soffrirne e di aiutare gli altri a individuarli in se stessi qualora soffrano del mio stesso male. Sinceramente penso che il primo obiettivo sia irraggiungibile: la depressione maggiore è assimilabile a una psicosi che deforma la visione della vita e non si presta facilmente a una razionalizzazione, per cui o sei Jeckill o sei Mr.Hyde. Il secondo scopo è invece più realistico, perciò mi presterò a questa reminiscenza anche se, come la citazione iniziale fa capire, non ne sono particolarmente felice e non credo che riuscirò ad attenuarne l'impatto con l'ironia.
 
1) Il sonno
L'insonnia e l'ipersonnia (dormire troppo) sono caratteristiche della depressione. Io ho sperimentato entrambe. Sono dipendente dai sonniferi fin dall'età di venti anni, ma periodicamente, approfittando del periodo estivo, ero sempre riuscito a disintossicarmi da solo, diminuendo gradualmente le gocce di Minias fino a farne a meno. Questa volta però neppure quaranta o sessanta gocce riuscivano a farmi dormire più di due ore di seguito. Ciò significava affrontare giornate difficili senza il conforto di una notte di sonno tranquillo; inoltre l'insonnia si auto-alimentava perché la paura di non riuscire a dormire mi teneva sveglio, in attesa snervante dell'oblio che non arrivava. Precedentemente, tuttavia, avevo dormito durante il giorno, passando gran parte del tempo a letto per "recuperare" le notti passate in bianco, ma mi sentivo assurdamente in colpa per questi "sonnellini".
La mia insonnia era solitamente ancora più grave se dormivo in un letto non mio o in compagnia di un'altra persona, esclusi mia moglie e mio figlio. Perciò il ricovero in ospedale mi spaventava, perché non sapevo con chi avrei condiviso la camera. Paradossalmente, invece, la degenza al Fatebenefratelli mi aiutò a ritrovare il sonno perduto: la psichiatra che mi aveva in cura eliminò il Minias e lo sostituì con un altro ipnotico, il Trittico. L'effetto fu prodigioso: non solo riuscivo a dormire anche sei o sette ore di fila, ma avevo ripreso a sognare, e i sogni erano piacevoli anziché angosciosi. L'unica cosa strana, all'inizio, era che andavo a letto sveglissimo e mi addormentavo di colpo; invece ora che sono tornato a Milano e ho ripreso le mie attività casco dal sonno verso le undici di sera e non c'è verso di tenermi sveglio.
 
2) L'appetito e il gusto del cibo e delle bevande.
La depressione mi tolse completamente l'appetito e mi chiuse lo stomaco. Facevo fatica a mandar giù cento grammi di pasta e un'insalata. Non riuscivo a finire una pizza. Peggio ancora se il pasto me lo dovevo cucinare io: compravo cibi che non riuscivo poi a mangiare e pane, frutta e verdura si accumulavano nel frigorifero. Anche i dolci e le bevande di cui ero goloso persero il loro appeal e il loro sapore. Mangiavo non quando avevo appetito ma ad ore fisse, concludendo il pasto il più rapidamente possibile per poi occuparmi subito di lavare i piatti. All'ospedale ritrovai quasi subito la voglia di mangiare, soprattutto dopo il digiuno sopportato il giorno del ricovero e ripetuto il giorno prima della colonscopia. Se al Fatebenefratelli mangiavo relativamente bene (fu preparata per me una dieta senza fibre a causa della colite), ad Albese la pessima qualità del cibo mi obbligò, come in colonia da piccolo, a farmi delle riserve personali. Ora ho recuperato tutto il mio peso, mangio parecchio e sono di nuovo goloso.
 
3) La memoria.
La perdita della memoria fu il sintomo depressivo che mi spaventò di più all'inizio dell'estate. Non ricordavo le sequenze di tecniche che dovevo eseguire a karate, ma neppure il numero di telefono della mia ex-moglie, il Pin del bancomat e la combinazione per aprire il portone di casa. Non solo io ma anche il mio cardiologo formulammo l'ipotesi che questa smemoratezza fosse il sintomo di una malattia organica del cervello, ma molto più tardi una TAC smentì questa funesta ipotesi e nei test cognitivi ad Albese raggiunsi degli score molto alti per un paziente psichiastrico ultra-sessantenne. Erano l'ansia e la depressione a farmi dimenticare le cose, adesso che l'una e l'altra sono state messe a tacere non ho più paura di dimenticare e di conseguenza ricordo tutto. Di che cosa stavamo parlando?
 
4) L'indecisione.
Nel periodo più nero della depressione ogni scelta, anche la più banale, era un tormento che richiedeva lunghi minuti (a volte ore) e la decisione finale mi lasciava insoddisfatto. Era incerto su cosa comprare, cosa guardare in tivù, cosa fare nel pomeriggio, se chiamare o no mio figlio. Questo sintomo depressivo è stato l'ultimo ad andarsene e sia pure in forma molto mite, ogni tanto mi rallenta un pochino. Ma le mie giornate sono piene di attività, il che vuol dire, se non erro, che ho superato l'inerzia che mi frenava.
 
5) Egocentrismo e inaffettività.
Il depresso è concentrato su se stesso, la propria sofferenza e i propri sintomi. Se ne frega allegramente dei problemi altrui e spesso, con orrore, si rende conto di non provare veri sentimenti neppure nei confronti delle persone che gli sono più vicine. Devo ammettere di essermi trovato in questa condizione e di esserne uscito durante il mio soggiorno in ospedale, quando ho provato compassione ed empatia per i malati che soffrivano chiaramente più di me. Tornato a casa ho chiesto e ottenuto di dare gratuitamente lezioni di latino nel doposcuola popolare di un liceo milanese. Inoltre, dopo aver sfruttato mio figlio fino all'osso, sono riuscito a manifestargli tutta la mia gratitudine.
 
6) I rapporti sociali.
Al culmine della depressione non uscivo più di casa se non per andare dal giornalaio, non rispondevo alle telefonate, evitavo di vedere tutti tranne mio figlio perché la loro compagnia non mi aiutava né mi distraeva. In ospedale fui costretto ad avere rapporti di buon vicinato con molta gente sconosciuta (medici, infermieri, ma soprattutto altri pazienti). Mi accorsi che provavo piacere nel conversare o giocare a scacchi con alcuni di loro. Tornato alla normalità ho mantenuto i contatti con alcune persone conosciute ad Albese e ho riallacciato rapporti con altri vecchi amici che avevo trascurato. Anche Facebook e in generale Internet mi aiutano negli scambi di idee ed emozioni con altre persone.
 
7) Il senso della vita.
la depressione ti induce a pensare che la tua vita sia inutile, oltre che dolorosa e suscita in certe persone l'impulso al suicidio. Io ammetto di aver spesso pensato nel corso dell'ultimo anno che addormentarmi senza più risvegliarmi sarebbe stata una soluzione indolore alla mia sofferenza esistenziale. In ospedale ho conosciuto persone che il suicidio l'avevano tentato per davvero, ma tutte erano pentite e ammettevano di aver fatto una cazzata. Adesso sono sempre dell'idea che un malato terminale abbia il diritto di trovare qualcuno che lo aiuti a porre fine alla sua agonia, ma mi rendo conto di NON essere un malato terminale. Quando le medicine hanno fatto il loro effetto, non mi è servito molto per restituire un senso alla mia vita: tornare all'insegnamento, sia pure gratuito, delle discipline che amo ai giovani (i miei interlocutori preferiti), riprendere gli allenamenti e l'insegnamento in palestra; mantenere e rinsaldare i rapporti con Giulio e con i miei amici vecchi e nuovi; scrivere e possibilmente pubblicare, a beneficio degli altri, la storia di questa avventura a lieto fine.
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  • : Questo blog si occupa di poesia, di politica, di karate. Vi si trova un'eco della mia personale e soggettiva visione del mondo.
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